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Il filo nascosto

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il filo nascosto

di MarioC
9 stelle

Dov’è nascosto, se c’è, il filo che unisce le cose, insegna la vita, dà colore al sentimento? Si può applicare alle relazioni umane la perfezione dell’alta sartoria, quell’ordine così bastevole a se stesso, quel procedimento di inattaccabile successione (concetto, idea, preparazione, levigatura, prodotto finito)? Oppure occorre accontentarsi, nel trasportare sul piano terreno la meraviglia della bellezza e lasciare che essa si stemperi nella virtù (a sua volte arte) del compromesso, nello sporcare il paradiso con il fango della quotidianità, nell’accettare il confronto, nel cedere qualcosa all’altro da sé, per trovare infine un faticoso equilibrio in cui si nasconda quel filo così complicato da tessere?

Il cinema di Paul Thomas Anderson è una lunga seduta di ipnosi, una strategia del ragno che avvolge e bracca, un circo di sensi, sentimenti, musica stordente (e vera e propria attrice). È un lucidissimo trattato sui rapporti umani, sull’amore e le sue connaturate deviazioni, sul potere ed i suoi (dis)equilibri, è la bibbia delle relazioni che si fondano su una subalternità pronta a rovesciarsi. Come e più che ne Il petroliere e, soprattutto, The Master, Il filo nascosto mette in scena una vittima ed un carnefice e le loro dinamiche liquide, fluide, mai scontate. Un gioco di ruoli che diventa improvvisamente esplorazione delle sue possibilità di scardinamento, la ecografia di nevrosi pronte a fagocitarsi l’un l’altra, il lungo vorticoso racconto di una passione che nasce malata, cresce agonizzante, infine muore nella ritrovata ottima salute di una inimmaginabile transazione. Ed il film è il quadretto esemplare di un menage a trois, del tutto disfunzionale rispetto a quanto onomastica lascerebbe supporre. Un uomo, una donna, un’altra, laddove quest’altra è entità polimorfa e proteiforme (una donna non amante, ma anche la passione divorante per il lavoro, l’ossessione per una perfezione che sfugge ad ogni affacciarsi del suo simulacro, l’idea dell’assoluto che si fa tristezza dinanzi alla impossibilità di compierlo, trovarlo. Perché anche l’assoluto è il filo nascosto).

 

Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

Il filo nascosto (2017): Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

 

LUI (tesi). Daniel Day-Lewis, in quella che potrebbe essere la sua ultima maiuscola prova d’attore. Raymond Woodcock, il sarto stilista ed il suo fascio di nervosi eppure immobili muscoli facciali, il suo bugiardino di nevrosi (si veda, per tutte, la scena della colazione laddove Anderson raffina e scarnifica la sua personalissima rappresentazione della crudeltà, raffigurandola sotto le mentite spoglie del mutismo e/o della cortese degnazione).  Un uomo che vive per una missione che considera messianica, il portato della cieca dedizione ad una causa, l’eroe stanco che non si stanca mai, il marito senza slanci, l’artista dell’elegante design che ha modi non amorevoli e non eleganti. Un carnefice, dunque, come andamento dell’opera lascerebbe immaginare. Ma questa, appunto, è soltanto la tesi.

LEI (antitesi). La magnifica ed eterea Vicky Krieps. La cameriera che assurge all’olimpo dell’alta moda, la modella investita da sguardi d’amore, la compagna fedele e silenziosa, l’invisibile filo (ancora) che tesse l’ideale di una famiglia, per quanto disfunzionale. Ma anche la Moira Atropo che può deliberare di recidere il filo di una vita che non meriti più di essere vissuta, lo sguardo di una quiete pronta a farsi tempesta, infine la donna che prende coscienza del proprio potere (ecco che la dinamica vittima/carnefice inizia a farsi sfumata) ed impone il proprio punto di vista, lasciando che lui (la tesi) ceda a lei (l’antitesi) o almeno ne riconosca pari dignità, stemperi la vischiosità relazionale in una sintesi che odori di compromesso ma anche di possibile serenità, di rinvenimento di quel filo che, finalmente, riesca faticosamente ad unire.  

L’ALTRA (e finalmente, o forse, la sintesi). O della lunga parata degli elementi disturbanti. Una socia in affari e la sua onnipresenza, soggetto per banali barzellette (una suocera che non è suocera), la rudezza e l’altezzosità raccolte nella falsa cortesia (Siete maestre di buone maniere, voi due, sussurra Woodcock dopo un raffinato scambio tra le due donne). E poi, si diceva: l’arte che è, per definizione, assoluta, non inclusiva anzi relegante, solitaria, maestosamente nevrotica. L’anelito alla meraviglia che è piacere tutto personale, non condivisibile. Una nobile belga che instilla gocce di veleno sotto forma di gelosia. Infine il veleno, quello vero: l’elemento teatrale che Anderson introduce in funzione di svolta, di sterzata drammaturgica. Veleno che non conduce tuttavia alla fine, facendosi al contrario espressione della necessaria sintesi. I rapporti di forza trovano nuova linfa ed inedito svolgimento nella malattia indotta (è un uomo che ha bisogno di fermarsi, oppure essere fermato, e desiderare di essere fermato, perché quell’ossessione non diventi a sua volta veleno mortale).

 

Daniel Day-Lewis

Il filo nascosto (2017): Daniel Day-Lewis

 

Una nitida riflessione sulla vita, un canto triste sulla tristezza della passione, un fiume carsico di sensazioni ed emozioni che è difficile riprodurre e piegare ad una logica definitoria. Il filo nascosto è rarefatta inquietudine che entra dentro, gioco seduttivo che Anderson conduce con la consueta satanica maestria, agevolato da una rara raffinatezza di immagine, dal gusto per il dettaglio (che a volte fa pensare, mutatis mutandis, a certi svolazzi di Kieslowski ed alle sue parabole sull’amore, ad esempio il tristemente satirico Film bianco), dalla musica che, come di consueto, si fa parte attiva ed accompagna praticamente ogni immagine, la rafforza, ne sottolinea e potenzia la bellezza, a volte può smorzare la concentrazione dello spettatore, ma fondamentalmente lo accompagna e lo conduce dolcemente nella selva sensoriale disegnata dal regista. Un congegno che sfiora la perfezione e che alla perfezione aspira, risultando per questo anche irritante. Ma se non è un capolavoro, ci si avvicina moltissimo.

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