Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
L’autore americano conferma il gesto criptico comune a tutta la sua filmografia. Il cinema, in quanto riproduzione della materialità, ha una reale possibilità di scavare a fondo nell'individuo? Lettura d'opera di una grandiosa iperbole sulle cause dell'amore, firmata Paul Thomas Anderson.
Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson: un enigma, un meccanismo sconosciuto di cui va trovata la chiave di volta. Questo meccanismo sconosciuto non è solo il film stesso, ma soprattutto i personaggi che lo popolano, i loro animi profondi e la logica insita nei loro comportamenti e nelle scelte che compiono. L’autore americano conferma il gesto criptico comune a tutta la sua filmografia, il suo cinema è alla stregua di un dipinto d’arte contemporanea: apparentemente indecifrabile, in realtà aperto ad interpretazioni che difficilmente non possono giungere alla filosofia o la psicologia. Giusto per tirare in mezzo un nome importante, visto anche il ricorrente rimando nelle stranianti inquadrature sui manichini spogli e decapitati del protagonista, la metafisica di Giorgio de Chirico calza a pennello.
Non si può quindi pensare che un semplice giudizio tecnico possa bastare per parlare de Il filo nascosto, così com’è abbastanza improbabile che una sola visione ne esaurisca tutte le possibili letture. Detto ciò, non ci si può esimere dall’elogiare la perfezione tecnica raggiunta da Anderson, che guida armoniosamente i due magistrali protagonisti, dirigendo il film come fosse una partitura musicale nella quale ogni sguardo e ogni silenzio sono calcolati al secondo. L’autore impone un impianto narrativo degno del miglior libro di Ishiguro, con al centro un uomo inconsapevolmente vittima del proprio modo d’essere.
Un uomo quadrato, fisso sulla propria routine ed incapace di accogliere nella propria vita ogni minima deviazione. Pure l’atto di innamorarsi è preciso e calcolato, come uno dei suoi abiti su misura. La messinscena e lo stile delle riprese ricalcano con scrupolo questa regolarità, che dovrà per forza cedere ad un sentimento che, comunque, Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) tenterà in tutti i modi di inglobare in uno schema prefissato. Eppure, la sua mania di nascondere messaggi tra le pieghe dei propri lavori, oltre a lasciar trasparire un chiaro sottotesto metacinematografico su cui tornerò in seguito, racconta un bisogno di fuga alla quale non riesce ad abbandonarsi. “Mai maledetto”, una delle cuciture nascoste, è un’uscita indecifrabile che non può trovare soluzione. Così è la stessa possibilità del mezzo cinematografico in quanto esploratore dell’animo umano ad essere messa in discussione. Il cinema, in quanto riproduzione della materialità, ha una reale possibilità di scavare a fondo nell’individuo?
Secondo Anderson sembrerebbe di no. Se da una parte l’opera è impregnata di riferimenti simbolici atti anche a rendere conto delle cause motrici dei personaggi, dall’altra il (lieto?) fine sancisce la vittoria del sentimento d’amore, ma al tempo stesso ci mantiene distanti dalla comprensione della crescente follia che, a conti fatti, ne ha permesso il trionfo. Infatti, il filo nascosto è senza dubbio ciò che unisce il protagonista alla defunta madre, la quale gli ha insegnato il mestiere e la cui dipartita ha creato in lui un inconscio desiderio di colmarne il vuoto. Un desiderio che si trasforma presto in una vera e propria dipendenza: l’amore diventa malattia e il regista lo spoglia e lo esibisce come punto d’incontro tra necessità diverse non contestualizzabili, se non dal punto di vista delle stesse persone coinvolte. Quindi, una volta constatata l’impossibilità di comprendere pienamente l’essere umano e le sue logiche interne, è la stessa moralità del pubblico ad essere messa alla prova.
Per chiudere, quale film migliore avrebbe potuto esserci de Il filo nascosto per congedare (definitivamente?) Daniel Day-Lewis dalla recitazione? Perché l’opera di Anderson rimanda chiaramente ad un sistema sociale circostanziale il mondo lavorativo di attori e registi. È impossibile infatti non vedere nell’ossessiva cura di Reynolds Woodcock per i suoi capi la stessa che l’autore, o più in generale un artista, mette nelle proprie opere. Allo stesso modo non sono casuali i piccoli giochi di forza tra le due donne di casa che non fanno altro che inficiare la stabilità psicologica dell’artista, in balia tra la ricerca della perfezione e le corruzioni provenienti dall’esterno. Alla fine, in questa grandiosa iperbole sulle cause dell’amore, la cinepresa ammette l’ineluttabile distanza tra essenza ed espressione, ma invita comunque ad abbandonarsi alla necessità del vivere.
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