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Il filo nascosto

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il filo nascosto

di lussemburgo
5 stelle

La vita di Reynolds Woodcock, sarto della rinomata casa londinese di moda omonima che veste nobildonne, ricche e regnanti estere, è basata su una rigida routine quotidiana, necessaria al suo appagamento e alla piena realizzazione della sua vena creativa. Ed è il perfetto cliché dell’artista ossessivo e narcisista che ritrae Anderson, un uomo al centro di un gineceo a lui dedicato e asservito, che non sopporta qualsiasi novità non programmata, dedito al lavoro e alla costruzione di opere perfette ed uniche, rabbioso se disturbato dal turbinio dell’ispirazione e incapace di reale affetto se non per se stesso e il suo mondo privato. Le numerose sarte operano nell’atelier del creatore, che è la casa in cui abita, sotto l’egida della rigida sorella Clay (casta e dal nome maschile), complice e amministratrice di vita e di lavoro, nubile tutrice dell’ordine familiare e professionale di un uomo ossessionato dalla figura della madre, di cui porta la foto cucita nella fodera della giacca e per la quale aveva confezionato in solitario l’abito delle seconde nozze, che è anche all’origine della vocazione sartoriale.

Incapace di non annoiarsi nella quotidianità di una relazione, Reynolds scaccia le amanti appena si manifesta la ripetitività, deflettendo subito il proprio interesse altrove, verso nuove fonti di ispirazione, posando lo sguardo su un nuovo modello di donna che possa indossare i suoi capi pregiati riempiendoli di carne più fresca e di nuove prospettive per farli sfilare al meglio sotto i propri occhi e quelli delle clienti. È un film di fantasie incarnate, Il filo nascosto, con un immaginario femminile asservito ai desideri e ai progetti di un demiurgo alla costante, inconfessata ricerca di un volto nuovo, di un corpo subito riprogettato secondo il proprio volere, quindi rigettato, con la noia che l’accompagna fuori dalla casa e dalla vita di un artista dedito solo al monumento di sé.

Se all’inizio domina la perfezione di una recitazione astratta di Day Lewis, che investe un personaggio immaginario con il proprio corpo senza i tic degli attori del metodo ma spogliandosi in esso e si muove con la felina grazia di un levigato Cary Grant, a poco a poco si fa largo il contrasto con la nuova fiamma, Alma, eterea nel corpo quanto carnale negli atteggiamenti, rude nella rumorosità dei gesti e concreta nella risolutezza con cui impone il proprio sguardo su quel mondo recluso e regolato. Con fattezze anodine e una recitazione sgraziata nel contesto, l’attrice lussemburghese stride come un corpo estraneo e come tale è vissuta anche dall’ambiente reazionario e protettivo che circonda il protagonista.

E tutto il film si costruisce quindi nelle schermaglie, sempre meno delicate e sempre più amorose dei due, sino ad un sardonico finale di mutua complicità tra carnefice e vittima letterali, a ruoli alternati e complementari, con uno a rendersi debole per soddisfare l’altra, che poi ne asseconda le volontà egemoniche in un gioco di precario equilibro tra violenza imposta e subita come alimento necessario ad una libidine sublimata. Come in un moderno codice Hays, il sesso si nasconde tra le pieghe e le allusioni del racconto, si traspone nella sensualità del cibo e delle bevande in cui colazioni e cene diventano preliminari di una rapporto o di una separazione, l’impellenza si traduce in “sete” e la verità in appetiti, variamente declinati. Non è quindi un caso che l’avvelenamento, preludio alla ricomposizione della coppia, passi per l’ingestione, e che esso sia prodromo di febbre e di passione, sia epifania d’amore.

Se l’etichetta nascosta, quel segreto inconfessabile di cui si è soli a conoscenza, che il sarto può permettersi di infilare in un risvolto e che rende preziosa un’opera perché personale, al di là della sua perfezione formale e apparente, indica il senso del film, esso risiede anche nel nascondersi all’etichetta di una società rigida per trovare un’armonia diversa, un rapporto non canonico che risponda ad un’intima fragilità che rende umani e vulnerabili, quindi desiderabili. Oltre la coltre di pignoleria e rigore, Il filo nascosto, quel ricamo fantasma che cela qualcosa, è un’opera sulla concretezza delle chimere, da realizzarsi nella vita e nel lavoro, nel sesso come nell’arte, nel rigore degli abiti o in un figlio, mai davvero inquadrato da una macchina da presa che lo lascia infine alle cure della zia, e che forse non è che un’altra fantasticheria della protagonista (a cui viene lasciata l’iniziativa narrativa in un resoconto per flash-back) e del suo desiderio di affermazione e di presa di possesso di un mondo che non le spettava.

Perché l’amore, nell’accezione mostrata da Anderson, sembra ricondursi ad una reciproca dolce violenza, una immaginazione di sostegno imperituro ad un uomo solo in apparenza forte attraverso la sua debilitazione e la volontà di imposizione che passa attraverso l’inganno e l’intossicazione. La sincerità del rapporto traligna per una mutua e a volte muta dipendenza, in cui i ruoli sono in perpetua ridefinizione per mezzo di un sadomasochismo assunto e consapevole, un succedaneo post-vittoriano del sesso in una società perbenista come quella inglese del dopoguerra in cui l’apparenza è tutto e la verità disdicevole disinvoltura.

Film compassato e formalista come il suo protagonista, Il filo nascosto si rivela ben presto un gioco hitchcockiano con una nuova donna a prendere il posto della precedente, una variazione di Rebecca in cui la prima e seconda moglie sono incarnate entrambe in Alma, la più recente e giovane conquista dell’affascinante stilista, in un gioco di reciproche crudeltà. In un ambiente asettico e di inviolabile regolarità governato dalla sorella di Woodcock, replica fedele della signora Danvers del film di Hitchcock per atteggiamento e fisico, garante, se non della memoria di un'altra donna, della fedeltà ai dogmi comportamentali dello stilista. E, come in quel film, una grande casa di campagna ospita gran parte dell’ambientazione, con una trama gotica di sadico attaccamento e gelosia in una vertigine amorosa di perdita di se.

Ma quando Reynolds guarda da uno spioncino, di nascosto dal pubblico, la sfilata delle modelle in casa e la luce gli illumina l’occhio, prima di profilo poi inquadrato frontalmente, la citazione di Psycho, con le sue maniacali voluttà voyeuristiche, riporta ancora ad Hitchcock. E l'avvelenamento, addirittura consensuale, non può non far pensare al finale (alternativo, ma originale nei progetti del regista) del Sospetto, con la condanna consapevole della moglie da parte di un Cary Grant seduttore (e omicida incriminato poi dalla lettera postuma di lei). Ed è all’attore inglese, ex ginnasta circense, che i movimenti eleganti e morbidi di Day Lewis fanno subito pensare, con la medesima nonchalance nell’indossare abiti formali sembrandone sempre privo. Anche i viaggi in macchina a velocità sostenuta sembrano rimandare ancora ad Hitchcock, con il viaggio di arrivo a Manderlay in Rebecca o con i ritorni pericolosi dai picnic sulla Corniche in Caccia al ladro, mentre nel tortuoso rapporto di coppia, fatto di reciproca violenza tra innamorati, sembra trapelare anche Notorius. Per non citare il manuale di trasformazione ad immagine del desiderio che è La donna che visse due volte, in cui James Stewart è stilista e regista della donna che vuole amare, indifferente all'identità reale dell’amante.

Perché, in effetti, di una variazione su Hitchcock si tratta, e Il filo nascosto tutto altro non è che una biografia nascosta e inconfessata del regista inglese. Alma era, in effetti, il nome della moglie di Hitchcock e anche quella coppia fece il viaggio di nozze in Svizzera, come i due protagonisti del film. E non è difficile vedere nella maniacalità della edificazione di un mondo assolutisticamente personale la stessa algida passione che Sir Alfred metteva nel ricostruire le attrici e il mondo narrativo di ogni suo film, opere d’arte talmente personali da essere all’origine della definizione di “cinema d’autore” secondo i “Cahiers du Cinéma”. Se i film di Hitchcock erano frutto di una precisione ingegneristica nell’articolazione dalla grammatica cinematografica, essi erano anche l’espressione di una casta sessualità e di una profonda attrazione verso il feticcio rappresentato dalle proprie protagoniste, rimodellate su fantasie più o meno evidenti di desiderio, violenza e sottomissione.

In questo esercizio hitchcockiano, privo però di suspense e dell’ironia straniante delle geometriche inquadrature del regista inglese, tutto a lui rimanda, sin dal nome del protagonista (Woodcock) e da quello della moglie, il cui ruolo, nella creatività del marito, era quello di Clay, paladina dell’incolumità di una volontà artistica, strenuo difensore di una visione personale da proteggere dalle intemperie e dalle distrazioni del mondo reale, a dispetto delle angherie psicologiche e dell’autoflagellazione intrinseca di un rapporto che vedeva la seduzione proiettata altrove, verso alcove immaginarie lontane dal talamo domestico.

Se ben noto fu il rapporto subito conflittuale con Tippi Hedren, la più maltrattata tra le attrici hitchcockiane (ladra violentata dal marito in Marnie; vittima di volatili omicidi negli Uccelli) e non diventata diva per scelta di fuga dal maestro, l’Alma di Anderson decide invece di restare e di resistere, di affermare il proprio punto di vista, diventando, da vittima predestinata, carnefice e complice. La ragazza sviluppa, secondo modalità di sadomasochismo palesi, un rapporto di malata interdipendenza con Reynolds, che infine sposa, esasperando l'alternanza di desiderio e di odio in esaltazione e delirio fisico attraverso l’avvelenamento, la malattia e il recupero delle forze, la sottomissione alternata dell’uno all’altra nella coppia.

Da Rebecca alla seconda moglie, Alma è sia la maligna seduttrice che l’ingenua conquista, la vittima dell’ambiente e dall’aura soffocante che vi regna quanto l’orgogliosa regista di una vita autonoma, assumendo su di sè anche il ruolo di novella pseudo-sorella, ritrasformandosi così nell’Alma di Hitchcock al posto della Clay di Woodcock. Sulla falsariga di Max De Winter, Reynolds si muove in un film che, come quello con Olivier, è abitato da fantasmi (o presunti tali), dall’immagine opprimente di un’altra donna (madre o moglie) e dalla funzione castratrice di una garante dell’ordine (sorella o moglie). Se Rebecca (al netto delle apparenze) era il primo film americano per il regista inglese, Phantom Thread è il primo film inglese per il regista americano, ed è una pellicola il cui filo nascosto è soprattutto lo spettro di Hitchcock, nuovo riferimento di un autore che funziona per imitazione variata, avvicinandosi ai propri maestri per ricalcarne modi e temi a seconda dei tempi (Altman, Scorsese, Kubrick, ecc.) e che fa della sgradevolezza dei personaggi e dei racconti la sua vera cifra stilistica, il filo conduttore di un’opera articolata in modelli differenti, come le diverse collezioni di uno stilista ossessivo e maniacale al servizio del proprio ego artistico e narcisistico.

 

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