Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Quello che domina per tutta l’opera è questo complesso rapporto tra i due personaggi principali, ostacolato e ripianato di continuo, nonostante il carattere granitico e nello stesso tempo fragile del protagonista. Come un filo nell’ago che entra ed esce dalla stoffa, che sparisce e riappare. Il filo nascosto è quello che lega due persone.
La perfezione. La morte. L’amore.
Quando la perfezione diventa maniacale si veste di ossessione e se l’ossessione si impadronisce di un sarto i suoi vestiti tendono verso l’unico obiettivo: creazioni perfette, così perfette da non poter apportare più alcun miglioramento. E solo allora il sarto può consegnare la sua creatura alla donna giusta che lo deve indossare in maniera consapevole, conscia di dover esaltare il fascino di tale vestito ma anche di diventare più bella proprio per merito di ciò che esso le dona. Se lei sarà ammirata lo dovrà esclusivamente al suo abito.
Anche la morte, a suo modo, è un momento perfetto. Non si torna indietro, può variare la maniera ma il risultato è una logica conclusione imperfettibile che dà un solo risultato, un’unica conclusione.
Solo l’amore è imperfetto, con molti problemi. Si può cercare di viverlo il meglio possibile ma perderebbe in partenza la battaglia sia con la perfezione che con la morte. Imperfetto anche perché molte volte, come in questo caso, può essere amore e non amore, oppure deleteriamente amore per se stessi.
Il protagonista Reynolds Woodcock ha ben presente tutto questo e avverte anche la paura della morte: “Non mi fanno paura, dà conforto sapere che i morti vegliano sui vivi.” Lui così scostante fino alla più spasmodica presunzione, fino a diventare vanitoso, totalmente arido di sentimenti verso il prossimo, avverte con fastidio quel timore. La paura della morte, che annacqua la presunzione, scioglie la vanità, innaffia finalmente l’aridità dei cuori. Solo questa paura scalfisce la sua alterigia e lo rende più umano. E quando vede per la prima volta quella strana e inattesa sconosciuta cameriera chiamata Alma avverte il primo scricchiolio nella sua graniticità. Ne ha percezione e ce lo trasmette in una sequenza memorabile piena di tanti significati: Paul Thomas Anderson ci mostra la tromba delle scale della sontuosa dimora-atelier che si innalza fino al lucernario (ancora una tromba di scale, che inquadrata dal basso o dall’alto, lascia sempre il segno in un film importante) la cui luce illumina la figura elegante di Alma che scende, fasciata da uno degli abiti del sarto. Reynolds la osserva scendere senza parole, ma con un espressione e uno sguardo che dice tutto. Era già rimasto sconcertato al primo incontro con quella strana ragazza nella piccola trattoria dove si era recato per una sosta, alta e ben fatta, con un lungo collo proteso in avanti, rubizza sulle gote e con una camminata caracollante come una contadinotta ma osservandola scendere dalle scale capisce: più la osserva e più diventa pensieroso, accigliato. Perfino spaventato dall’attrazione per questo donna semplice ma intrigante, dalla bellezza che ne scopre allo sguardo. È quasi terrorizzato dall’idea che qualcosa di esterno a lui, estraneo alla sua vita così precisamente e volutamente monotona, scandita da gesti e azioni ripetitivi fino alla maniacalità, possa in qualche modo manomettere i suoi ritmi, la vita della casa, interrompere i lunghi momenti di silenzio assoluto in cui crea i suoi vestiti. Le sue regole assolute?
E così sarà, infatti.
Ha così inizio una continua ed inesorabile tessitura di un rapporto affettivo - imperfetto e folle - che ripetutamente si fa e si disfa, si consolida lentamente e si frantuma facilmente, torna a rinsaldarsi per durare fino al prossimo accidentale fastidio provato dallo stilista. Per ricominciare può bastare la buona volontà oppure una misurata dose di veleno naturale (omphalotus olearius?). Lui sarà pure un ossessionato maschilista ma la scaltrezza della donna evidentemente non la conosce, non l’ha messa in preventivo, e quando realizza l’abile disegno di Alma sa bene che si deve arrendere davanti a tanta dedizione. Con un mefistofelico sorriso approva e accetta di cenare con quei particolare funghi, buoni sì ma soprattutto così efficaci per arrendersi a quella donna tanto combattiva, solo apparentemente sottomessa a lui. Capisce che deve mettere da parte il ricordo tormentoso e opprimente della mamma che le torna spesso in sogno, vestita con quell’abito bianco da sposa che non utilizzò. Quasi una nemesi: la sua prima creazione, per la donna perfetta (chi più della mamma?) dei suoi ricordi ma immortalata come una morta nella foto che conserva gelosamente. Come una ciocca dei suoi capelli.
“Si può cucire ogni cosa nella stoffa di un soprabito. Da bambino ho cominciato a nascondere le cose nella fodera dei vestiti. Solo io ne conoscevo l’esistenza. Segreti.”
Nulla può e deve distrarlo dal suo quotidiano lavoro di tracciare gli schizzi delle prossime creazioni, nulla deve disturbare il religioso silenzio in cui nasce il concetto per un nuovo vestito, solo quando lui parla gli altri (gli altri? ma chi? solo la sorella Cyril e la nuova ospite Alma) possono interloquire, ma solo dopo il permesso ricevuto dalla sua prima esternazione, altrimenti anche il rumore di un coltello che spalma il burro sul pane tostato potrebbe mandarlo su tutte le furie. Assolutamente nulla deve far variare le regolatissime ore della vita quotidiana, tra un disegno, un taglio di stoffa, una passeggiata, un pasto, quest’ultimo senza sorprese o variazioni di ricetta: lì olio, lì burro, mai un cambiamento. Ne pagherà le conseguenza Alma, per una cena immaginata romantica a lume di candela e con menù a sorpresa. Guai! Son tutte distrazioni che rovinano il ritmo di una vita totalmente ed unicamente consacrata alla creazione, alle sfilate, alle visite delle nobil donne che lo vanno a trovare in atelier per scegliere i prossimi abiti. Solo la sua Arte. Loro scelgono anche su suoi consigli e quando li indossano, Reynolds Woodcock le osserva attentamente, con insistenza, sicuramente con amore, come un innamorato, e non di quelle donne ma di quello che indossano. Quello che vede e ammira è l’abito, è la sua creatura che “porta” dentro un essere umano in giro. Lui le elogia e le beatifica in maniera gratificante ma vede solo la stoffa pregiata che ha utilizzato a dovere, la perfezione del taglio, le cuciture impeccabili. Anche i gioielli abbinati vanno bene ma Reynolds vede solo il contenitore e mai il contenuto e gli ammennicoli di contorno. La donna è troppo grassa e non rispetta la sacralità del vestito? Allora vuol dire che non è degna di averlo addosso: va privata di quell’opera d’arte, va denudata seduta stante, va spogliata anche con violenza. Quel vestito non merita quella persona. Siamo oltre il supermaschilismo, è solo una questione di ego e passione assoluta per ciò che fa. Il sesso? Pochissimo e mai mostrato da PTA ed è ben significativa la prima sera di Alma in quella casa: lui le mostra la camera assegnata e quando lei si aspetta chissà che, lui si gira e va nella sua.
Alma gli vuol bene lo stesso, sa di essere un essere umano sacrificale per la missione che deve essere portata a termine dal suo uomo e ne accetta il destino, il sacrificio, dando tutta se stessa, con abnegazione ma anche con la fiducia che saprà conquistarlo, anche appunto utilizzando pericolosamente alimenti che le serviranno per ammorbidire le di lui asperità, smussando gli spigoli di un carattere scomodo e apparentemente insopportabile. Perché? “Reynolds ha realizzato i miei sogni. E io gli ho dato ciò che desidera di più in cambio: ogni pezzo di me…. Sì. Forse è l'uomo più esigente.“ E perché lei è capace perfino di conoscere le sue debolezze e sfruttarle a suo vantaggio. È una donna. Anche intelligente.
Quello che domina per tutta l’opera è questo complesso rapporto tra i due personaggi principali, ostacolato e ripianato di continuo, nonostante il carattere granitico e nello stesso tempo fragile del protagonista. Come un filo nell’ago che entra ed esce dalla stoffa, che sparisce e riappare. Il filo nascosto è quello che lega due persone anche se il loro legame non si appalesa, è quel rammendo che nasconde le ferite delle stoffe, è il disinfettante che fa guarire le lacerazioni dell’amore, è la segreta cucitura che nasconde nella piega una ciocca di capelli; il filo nascosto è la tromba delle scale che rivela l’innamoramento, è il talismano per mantenere il successo d’élite nell’Inghilterra degli anni ’50.
Doveva essere il ritorno sul set di un regista magistrale assieme al più grande attore vivente, doveva essere una festa e si è trasformato in un malinconico addio alle scene, a cui non si può fare a meno di pensare guardando il film. Almeno lo è per chi vi scrive, che li ha amati alla follia nel loro primo incontro de Il petroliere. Lì dove era tutto ruvido sporco oleoso puzzolente avido faticoso, sudore e fatica, morti e feriti, ingordigia e possesso; qui è lusso bellezza eleganza fascinosità pulizia di designer profumo precisione colore nella giusta tonalità. Ma le immagini, le inquadrature, le sequenze magniloquenti, la potenza visiva sono gli stessi e anche l’attore. Daniel Day-Lewis rappresenta in pieno il cinema che PTA gli ha chiesto due volte e, ahimé, mai più a quanto pare. Un uomo che è più di un attore. Come nel Petroliere, più che indossare il personaggio lo divora e lo vive come se fosse lui stesso lo stilista della storia reale. Un uomo che, ossuto come sempre, aumenta a dismisura la presenza (meta)fisica esaltando ancor più la sua magrezza con i capelli grigi, le vene che pulsano sulla fronte alta e stempiata, il suo scandire le frasi taglienti come lame che distruggono chi lo contraddice, chi lo infastidisce. Un attore, tra l’altro, per cui dovrebbe essere vietato il doppiaggio per legge internazionale. Un attore che non ha bisogno di controfigure per le scene di manualità: si nota la estrema maestra nel muover le mani, nel dosare le dita nel posto giusto, sulla stoffa, sul corpo della modella, nel poggiare delicatamente un cappellino sulla testa della ragazza che deve sfilare, nel far svolazzare le stoffe pregiate che maneggia. Lui, DDL, che è da sempre un amante dell’artigianato, che ama fare il pittore, che ama davvero creare e lavorare artigianalmente, che ha lavorato per un anno come un anonimo pellaio in una calzoleria di Firenze. Insomma non finisce di stupire, come questo suo improvviso gesto del ritiro. Come afferma lo stesso regista, il film avrebbe potuto essere anche su un altro tipo di personaggio: la storia poteva incentrarsi sulla figura di uno scrittore un pittore o uno scultore. Tanto DDL si sarebbe adeguato e avrebbe reso ugualmente tanto. Un gentleman inglese con vocazione dell’artigiano di alta qualità.
Sul piano artistico ci troviamo davanti ad un film maestoso, di filigrana confezionata con metallo prezioso, interpretato in una maniera tale che si resta inebetiti, con la migliore regia che si possa immaginare. PTA è un genio dello sguardo, dell’inquadratura, delle scelte dei tempi, sempre ritmati dalla musica che predilige, qui scanditi da un pianoforte dolcissimo che, tra un brano e l’altro scritti dal fedele Jonny Greenwood, il polistrumentista dei Radiohead, e che si alterna ai brani di Ira Gershwin, Kurt Weill, Debussy, Schubert, Brahms, Berlioz. Un godimento continuo per occhi, orecchie, sceneggiatura affascinante, recitazione, abiti e maestosa messinscena. PTA e DDL sono un dono divino di cui solo chi va a cinema può godere. E sarebbe un errore giudicarlo un film “patinato” come si suol dire nei casi di opere elegantissime, un grave errore. L’eleganza e lo stile impeccabile sono la fotografia di un mondo che porta insito quel concetto, sono il concetto creativo delle idee di uno stilista che cerca la finitezza nella bellezza in modo totale e compiuto, che si tramutano in immagini consequenziali. Ciò che il regista ha saputo con grande sapienza portare sullo schermo.
E i personaggi e gli attori! Lei, la belga Vicky Krieps, la cameriera con il fisico da fotomodella che cammina come una contadinotta ma che è dotata di una determinazione che non ti aspetti, anche nella recitazione, a dispetto dell’inizio quando non scommetteresti per lei neanche un cent. E poi, una conferma eclatante, la sorella del protagonista, una Lesley Manville al di sopra di ogni attesa, un’attrice così perfetta nel ruolo che pare un cronometro, un metronomo che detta i tempi del film e della vita del fratello. Ferma e silenziosa, spostando solo lo sguardo recita con sprazzi di grande classe, una lezione di umiltà di un’attrice sempre in secondo piano che ha ancora molto da giocare nella sua vita artistica.
Un film che lascia il segno, piano piano, a lungo. Ce lo ricorderemo, a lungo, per non dimenticare ogni particolare, senza saltare alcuna frase (che sceneggiatura!), goduria per gli occhi (specialmente per le donne amanti dell’alta sartoria). Perché se il cinema è magia, allora questo film è il paradiso.
Gli Oscar 2018 saranno assegnati tra qualche giorno e io, in cuor mio, comunque vada (e immagino che così non andrà) ne ho già dati 4 a questo film: attore protagonista Daniel Day-Lewis (sarebbe il quarto, nuovo record!), attrice non protagonista alla strabiliante Lesley Manville, alla regia di Paul Thomas Anderson ed infine quale miglior film dell’anno.
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