Regia di Peter Mackie Burns vedi scheda film
Torino Film Festival 35 – Concorso.
Nel continuo vagare, in attesa che un metaforico fulmine ci colpisca e riesca a risolvere dei problemi che probabilmente nemmeno noi riusciamo a identificare, quantificare e decriptare, possono capitare eventi imprevisti che inseriscono una frattura nel ripetitivo quotidiano. Quando la scorza instaurata dal tempo è dura come il granito, serve ancora dell’altro per uscire dal tunnel, anche perché senza un’effettiva volontà individuale non si può andare molto lontano: l’inquietudine è una stato interiore autolesionistico che non ha una cura determinabile con una banale formula infallibile, cui nemmeno lo psicologo più preparato può porre rimedio senza una precisa richiesta d’aiuto.
Daphne (Emily Beecham) è una trentenne londinese dai capelli rossi, che lavora come aiuto cuoca in un ristorante raffinato, continuamente in lite con sua madre Rita (Geraldine James) e, più in generale, con tutto quanto la circonda.
Un avvenimento drammatico sembra riuscire finalmente a smuovere qualcosa dentro di lei, mentre nel frattempo continua a ricercare sesso occasionale con il primo che le capita a tiro, rifiutando qualsiasi rapporto possa al contrario rappresentare un porto rassicurante nel quale rifugiarsi. A questo proposito, rispedisce al mittente il corteggiamento del suo datore di lavoro Joe (Tom Vaughan-Lawlor) ed è particolarmente fredda con Tom (Osy Ikhile), un buttafuori di rara gentilezza.
Qualcosa riuscirà finalmente a scalfire il suo perenne cinismo?
Daphne pone in essere il ritratto di una donna che non sa bene cosa vuole, ma che al contrario ha una sterminata lista di cose da evitare, in una Londra idealmente lontana dal Big Ben, un luogo dov’è possibile incontrare chiunque e non conoscere veramente nessuno.
Peter Mackie Burns - esordiente nel lungometraggio - polarizza tutta l’attenzione su una figura di rara abnegazione nel calpestare ogni possibilità le si presenti, autodistruttiva nel dna, capace degli atteggiamenti più inappropriati, anche nelle situazioni più facili da sbrigliare.
Pur ammettendo l’iperbole del caso, Daphne incanala un preciso snapshot di una generazione alienata, reduce da genitori che hanno a loro volta perso la trebisonda, con obiettivi da conquistare - in questa circostanza diventare secondo chef - che vengono demoliti con estrema disinvoltura e il rifiuto di quanto potrebbe avere la forma di una certezza per continuare a sbattere contro lo stesso muro, come farebbe un pessimista che vede in ogni opportunità un pericolo.
Questa serie di atteggiamenti costituiscono una corazza che invece di difendere, preclude le occasioni, sarà che - come le malelingue tramandano - i capelli rossi naturali, oltre a essere nettamente i più rari, sono sintomo di un carattere intrattabile. Eppure, Daphne un cuore ce l’avrebbe, ma non è ancora pronta per buttarsi e non si sa nemmeno se questo momento potrà mai arrivare.
Stante queste peculiarità, Peter Mackie Burns coreografa una danza solitaria che respinge chi vorrebbe stringere le braccia intorno ai fianchi della protagonista in una calorosa stretta infinita, ed Emily Beecham è tremendamente efficace nell’evidenziare un carattere indomabile e tutt’altro che cattivo, semplicemente fuori posto e senza obiettivi da posizionare in pole position.
Una descrizione vibrante, che si giova dell’assenza di uno schema prevedibile dal punto di partenza fino all’arrivo, anche quando sono seminati indizi altamente visibili - vedi la rapina nella quale è coinvolta la protagonista -, un aspetto che, posato su uno svolgimento volutamente disarticolato, diventa un elemento nevralgico.
Schietto e sincero fino all’ultima riga, anche se comportandosi così c’è il rischio di farsi del male.
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