Regia di João Dumans, Affonso Uchoa vedi scheda film
Andre (Murilo Caliari) vive nella città industriale di Ouro Preto, nel sud-est del Brasile. Un giorno, nella fabbrica di alluminio che si trova nel quartiere dove vive, capita un incidente che coinvolge gravemente un operaio. L’operaio rimasto vittima è Cristiano (Aristides de Sousa), che Andre conosce per essere un suo vicino di casa. Recatosi nella sua abitazione per prendere delle cose, Andre scopre dell’esistenza di un diario su cui Cristiano aveva annotato gli ultimi venti anni della sua esistenza. Andre se lo mette a leggere questo diario, e conosce meglio questo uomo dal fare vagabondo che ha vissuto una vita colma di stenti e di ingiustizie, passata a fare molti lavori in mille luoghi diversi. Parla di tutto in questo dolente luogo della memoria, senza veti, delle cose brutte che è stato meglio nascondere e di quelle belle che non ha saputo affrontare. C’è spazio anche per i ricordi dolci, per la solidarietà umana e la vera amicizia. Come quello per il vecchio Barreto (José Maria Amorim), che gli ha fatto capire il valore dell’unità nella lotta operaia, o quello per Nato (Renato Novaes), l’amico di lavoro di più lungo corso. E per Ana (Renata Cabral), l’amore di una vita che dimenticherà mai di ricordare. Potevano avere un figlio insieme, hanno ricevuto solo la possibilità di riprovarci. Ma Cristiano sa rinascere solo fuggendo.
“Arábia” del duo brasiliano Joao Dumans e Affonso Uchoa è un on the road che attraversa alcune delle zone più marginali del Brasile, quello dove il lavoro è poco ed è sottopagato e rimane solo l’amicizia vera a fare da scudo alle intemperie della vita. Per come è strutturato il suo impianto narrativo, è impossibile non andare con la mente al bellissimo “Tabu” di Miguel Gomes. Come il film dell’autore portoghese, anche “Arábia” comincia con l’attenzione rivolta a dei personaggi che dopo pochi minuti escono letteralmente di scena, rimanendo centrali nell’economia della storia solo perché hanno fatto da tramite alla voce di una memoria che altrimenti sarebbe rimasta nell’oblio più totale. Anche in “Aràbia” tutto ruota intorno al flusso dei ricordi accompagnati nel loro trascorrere lineare dalla voce narrante del protagonista. L’effetto prodotto è quello di legare in un rapporto imprescindibile il fare vagabondo prodotto dalla vita precaria di Cristiano e l’afflato poetico che scaturisce dalla sua anima meditabonda. Ad inizio film, c’è un dialogo tra Andre è il fratellino che fornisce delle direttive emblematiche sul carattere del film. Evidentemente scosso dal grave incidente capitato in fabbrica, il piccolo dice “è più facile credere nel Diavolo che a Dio. Nel mondo è tutto un ammazzare, sparatorie, morti. E non ci sono miracoli”. Parole che immergono in un mare di candore la precoce constatazione del male, facendo da apripista al clima di fondo che percorre il film, che è improntato al nudo realismo ma senza disperdere la discreta presenza dei sogni, che ha un tono greve ma addolcito dalla melodia suadente di bellissime canzoni brasiliane. Si segue il cammino di Cristiano, il cui atteggiamento oscilla tra il disincanto stampato in faccia e la voglia di rinascere ogni volta portato a spasso dalle continue fughe.
Due persone hanno inciso molto nella vita di Cristiano, Barreto e Ana. Da loro ha colto i sapori più dolci del suo stare al mondo, ma attraverso entrambi ha potuto misurare tutto il peso delle sue insicurezze : nella lotta per i propri diritti con l’uno, e nella gestione dell’amore con l’altra.
Barreto gli ha fornito la prova concreta che è possibile conservare la dignità umana contro lo sfruttamento indiscriminato del proprio lavoro, che solo se parlano un'unica voce i lavoratori possono far valere le loro legittime rivendicazioni. Ma la vita lo ha portato a pensare che è molto difficile creare l’unità di “cento pesciolini piccoli contro un pesce enorme”. E lui asseconda questo dato empirico facendo della fuga da un luogo all’altro la regola migliore per sfuggire dai morsi della nostalgia, lasciando che Barreto incarni la bellezza di un ideale che non riluce mai abbastanza per rischiarare a giorno tutto il buio che c’è. Perché Cristiano si è convinto dell’irrimedibilità della sua condizione esistenziale, crede che quelli come lui sono nati per avere sempre le carte sbagliate in mano, che non hanno alternativa ad una vita vista dal basso. Intenti a condannare le ingiustizie che subiscono, ma sempre troppo deboli per poter combattere senza disperdere niente di quel poco che sono riusciti ad ottenere. E quanto gli capita qualcosa di bello, gli sembra sempre troppo per poterselo meritare veramente e goderne i frutti senza sentirsi inadeguato. Così è soprattutto con Ana, che gli ha fatto conoscere l’amore di una vita, di quelli destinati a rispondere presente in ogni momento che resta da vivere. Per Cristiano i ricordi sono tutto, “perché alla fine tutto ciò che abbiamo è la memoria”. E Ana finisce per diventare la parte più bella dei suoi ricordi, la parte fissa in un diario di memorie raminghe. Quella che lo ha posto in una posizione di inusuale privilegio per il semplice fatto che l’amore di una donna lo ha fatto sentire un uomo importante. Ma è proprio nella purezza di questo amore che si specchia la sua disarmante fragilità emotiva. Perchè Cristiano non sa usare le parole come Ana per esprimere i suoi sentimenti, non sa fornirgli le giuste coordinate emotive. Lui, che è abituato a muoversi sempre perché è questo gli ha imposto di fare la sua esistenza precaria, ha paura di soccombere sotto il peso di un amore normalizzato. Per questo fugge ancora, quando il fragore iniziale di corpi che si desiderano chiede di resistere alle scosse di assestamento di una complicità muta. Verso altri luoghi, altri lavori, altre vite. Come a volerci ricordare in ogni istante che “l’alba è una lezione dell’universo che ci insegna che dobbiamo rinascere”. Bel film, quando le piacevoli soprese fanno felice lo sguardo.
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