Regia di Ferenc Török vedi scheda film
La radio della stazione gracchia le ultime notizie sull'andamento della guerra nel Pacifico. Due uomini, intanto, scendono dal treno: l'abbigliamento del più anziano, un kapoteh scuro ed un copricapo, la portanza fiera del più giovane, e le barbe curate tradiscono la loro origine. Due bauli pesanti costituiscono il loro bagaglio. La carta d'imbarco parla di profumi. I soldati russi non si prendono la briga di controllare, troppo eccitati dall'euforia della vittoria. Le casse con il loro contenuto, forse l'oggetto di un'attività commerciale, vengono adagiate con le dovute cautele su un carro. Il capostazione assiste alle operazioni, infastidito dal caldo oltre che dalla presenza della squadra di soldati sovietici che dovrebbe controllare il traffico ferroviario. Ma appare evidente che l'agitazione del funzionario è causata dall'arrivo dei due viaggiatori, non dal clima torrido, dal contenuto delle casse o dalle bravate del drappello bolscevico. Una telefonata al notaio del villaggio e poi l'ordine al proprietario del carretto di andare il più piano possibile è ciò che avviene in seguito. Il capostazione deve guadagnare tempo per risalire al villaggio con la bicicletta e portare la notizia dell'arrivo dei forestieri. La coppia di viaggiatori, nel frattempo, segue il cavallo che procede a passo lento. Non sale sul carro, forse per non condividere il posto con gli ospiti, forse spinta da altre considerazioni. Il villaggio intanto, che già sembrava un alveare brulicante d'api laboriose, è costretto a distogliere l'attenzione dall'impellente matrimonio del figlio del notaio. La notizia giunta dalla ferrovia ha l'effetto di spaventare le api che ora ronzano furiose in torno al loro nido molestato dalla zampata improvvisa di un orso che vuole impossessarsi del miele.
Ferenc Töröc dirige un film molto bello e le motivazioni per considerarlo tale sono molteplici. Il film si fa notare agli occhi dei fotografi amatoriali: splendido bianco e nero vagamente sovraesposto che rende al meglio la luce abbacinante di una calda e assolata landa magiara ritratta in modo da avvalorarne la bellezza contadina. Molteplici ed eleganti le inquadrature, da quelle simmetriche sui primi piani, a quelle tipicamente fotografiche con campi lunghi che valorizzano il paesaggio seguendo le più basilari regole dei terzi, delle diagonali e delle linee guida rappresentate da viali alberati e strade polverose.
Insoliti gli angoli di ripresa scelti dal regista come nella sequenza ottenuta ponendo la mdp sotto il carro a riprendere una vecchia lanterna ad olio che oscilla come un pendolo, nell'incedere del cavallo, scandendo il tempo del cammino che inesorabile avvicina gli uomini e le donne del villaggio alla propria presa di coscienza. Töröc utilizza lo scalpiccio degli zoccoli e le pedalate della bicicletta come elemento di dissolvenza, un trucco affascinante che mantiene viva l'attenzione sui forestieri anche nel momento in cui il regista distoglie la macchina da loro per spiare, dietro una pudica tendina, le esistenze colpevoli e meschine degli abitanti: il notaio che si è arricchito impossessandosi del negozio dell'amico, la moglie di costui oppressa dal rimorso, il figlio ribelle, la fidanzata egoista, il prete colluso, l'uomo agitato dai rimorsi per la denuncia che ha causato morte e sopruso.
Török racconta una pagina inusuale della seconda guerra mondiale: il ritorno degli ebrei sopravvissuti ai campi nazisti nelle proprie case. Per narrare questo episodio mantiene la dignità che risulta propria a questa materia. Ma la drammaticità degli eventi ed il contegno imposto dal soggetto non gli impediscono di ibridare il genere. In questo sta la parte più fascinosa del lavoro che mescola audacemente le suggestioni western del maestro Leone, specie nelle sequenze e nelle inquadrature dedicate agli ebrei in viaggio dietro al carro nel paesaggio desertico e afoso della piana ungherese. Non manca la suspance che sfocia nella drammatica resa dei conti che non si consuma al suono delle pallottole ma nelle vibrazioni metalliche delle vanghe che scavano una sepoltura nel cimitero ebraico mentre al di fuori del cancello un popolo bellicoso attende impugnando vanghe e forconi.
Ma, nonostante il chiaro apporto del genere evocato, il finale rientra nei ranghi e riporta la narrazione ad approfondire, con rispetto, tematiche profonde ed universali: la viltà dell'agire umano, il rimorso che produce conseguenze dolorose, il contrappasso beffardo del destino. Non ci sono vincitori in questo racconto; solo le giovani generazioni che optano per non obbedire alle regole della convenienza (lo sposo che lascia il villaggio, la sposa che da fuoco a ciò che ha desiderato con maggior ardore) ci concedono una tenue speranza per un futuro migliore. Le vecchie generazioni sono appese ad una trave e dondolano come pendoli che misurano la fine del proprio tempo, negando l'abominio delle azioni compiute. Il treno che lascia la stazione evoca i vagoni del bestiame pieni di ebrei destinati ad Auschwitz. E le volute di fumo denso e nero, che uscendo dal comignolo della locomotiva riempiono l'ultimo scorcio di paesaggio, ci ricordano quanto accaduto in quel luogo lasciando un monito impossibile da eludere.
(v.o.s.)
Cinema sotto le stelle - Chiostri di Santa Corona - Vicenza
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