Regia di Philippe Van Leeuw vedi scheda film
La nostra casa parla di noi e ci dice chi siamo. Un dito di polvere sulle mensole, i libri perfettamente allineati secondo l'altezza, le scarpe mollate qua e là, una camera da letto sommersa da vestiti già indossati, ninnoli in bella mostra sul comò, tutto ciò svela la nostra indole. La casa ci parla dei nostri affetti nelle foto sui muri o nel riverbero di un passato gentile proiettato da ricordi sereni impressi negli oggetti che amiamo. In essa troviamo rifugio nei momenti di introspezione e da essa ce ne andiamo come scappassimo dalle nostre miserie. Mai come ora il rapporto che ci lega alla nostra alcova è stato messo così fortemente in discussione. Il rifugio è divenuto una prigione dalla quale fuggire a gambe levate anziché luogo di spensieratezza. Proprio non riusciamo a sopportare l'esilio all'interno delle mura domestiche e ci facciamo in quattro per eludere le regole e non rimanere soli con noi stessi. Ogni scusa è buona per andare da qualche parte ed uscire come se il nemico fosse dentro casa anziché fuori. Mentre noi non riusciamo ad affrontare gli incubi nel luogo che ci è più caro, nel ventre confortevole della nostra esistenza ed anzi ci prodighiamo ad estirpare il cordone che ci lega ad esso, il regista belga Philippe van Leeuw si addentrava in tempi non sospetti nelle stanze di un appartamento di Damasco raccontando la risolutezza della sua proprietaria che non prende minimamente in considerazione l'ipotesi di lasciare la propria casa, nonostante colpi di mortaio abbiano sventrato le abitazioni dei piani superiori. L'appartamento, in cui vive con due figlie adolescenti, un maschietto più piccolo, il suocero e la collaboratrice domestica, che non può più uscirvi, così come il nipote in visita, troppo pericoloso è, infatti, muoversi tra i cecchini che sparano a tutti dai tetti dei palazzi adiacenti, è l'unico rifugio efficace contro la precarietà di una vita in balia di eventi mostruosi. La casa pulita e ordinata nonostante la presenza di una giovane famiglia accampata perché costretta ad abbandonare il proprio covo sventrato è il vessillo dell'energica e testarda vitalità di Oum Yazan che mantiene inalterate le abitudini della casa per minimizzare gli effetti di un conflitto che si crede sia breve. Per mantenere l'ordine Oum Yazan lotta contro la polvere delle macerie che si annida sui mobili e sui pavimenti e non esita a nascondere alla propria giovane ospite, Halima, una grave notizia, sul conto del marito, che potrebbe mettere a rischio l'esistenza dell'intero nucleo familiare. Nonostante le spranghe sulla porta d'ingresso impediscano agli sconosciuti di entrare, l'avvento della barbarie è ineluttabile e fa breccia come una tempesta di polvere di mattoni e calcestruzzo che approfitta di finestre socchiuse e fessure alle porte per irrompere. La lotta per mantenere la serenità della casa è impari e la guerra infine fa capolino con un carico di drammatica violenza che rende la mancanza d'acqua corrente o di generi di prima necessità un'inutile facezia.
Come mai un regista belga sia finito a Beirut per ambientare un film sulla situazione di Damasco e della Siria rimarrà per me un mistero salvo ravvisare l'indubbio impegno civile che già lo contraddistingueva nel film d'esordio sul genocidio del Ruanda. La domanda è destinata a rimanere senza risposta se si pensa che il conflitto siriano non interessa alle istituzioni e nemmeno al cittadino: entrambi poco inclini a riflettere soprattutto sulle responsabilità occidentali in materia. Ed, invero, i continui capovolgimenti nelle strategie ondivaghe dei paesi occidentali hanno reso impossibile avere una visione sufficientemente chiara del fenomeno, che non sia ancorata alla propaganda delle parti in causa, di fatto scoraggiando ogni tentativo di approccio alla materia. Tutte queste motivazioni rendono encomiabile il tentativo di Van Leeuw di portare luce sul dramma di questo paese, benché sia destinato, con ogni probabilità, a rimanere senza seguito. Non credo riusciremo a vedere molto altro sulla Siria rasa al suolo da anni di guerra e dovremo aspettare la fine delle ostilità per un analisi, anche cinematografica, che sia esaustiva. Film come "Insyriated" e l'inedito da noi "The day I lost my shadow" rappresentano il modo più efficace possibile, alla luce delle difficoltà riscontrate, di analizzare il conflitto attraverso un diversa prospettiva che pone l'accento sulla quotidianità stravolta di chi subisce la guerra. Questi film parlano del disagio, della solitudine, della difficoltà di compiere gesti semplici come preparare il pranzo o lavarsi i capelli in una zona di guerra lasciando intendere che ogni privilegio acquisito in passato, come un grande appartamento acquistato dopo anni di sacrifici, od una posizione sociale di pregio, può essere spazzato via di colpo da una granata.
Van Leeuw non si sofferma sulla guerra, lasciandola al di là delle finestre della casa, e tanto meno si addentra in complicati discorsi politici che rimangono, dal mio punto di vista, più facili da teorizzare a guerra ultimata. La stessa strada l'ha percorsa la regista Soudade Kaadan nel titolo citato poc'anzi che abdicando all'analisi storica ne propone una più antropologica e sociale un anno dopo l'uscita in sala di "Insyriated".
Mantenendo praticamente inalterata sia l'unità di tempo che di spazio van Leeuw descrive i conflitti famigliari in una situazione di forte tensione emotiva analizzando le dinamiche interpersonali, e per evitare ogni forma di propaganda politica stabilisce che l'orrore che si consuma nel salotto non sia perpetrato dalle forze armate regolari o dalle milizie.
Hiam Abbass dà vita ad un personaggio femminile a tutto tondo sospinto dal rigore dell'istinto materno e dalla capacità di scendere a patti con discutibili decisioni che rasentano l'egoismo della legge della sopravvivenza. Diamand Bou Abboud è protagonista della scena più cruda benché velata dal sipario della mdp quasi se van Leeuw preferisse un approccio estetico mediorientale ad uno prettamente europeo. Infine il vecchio Mohsen Abbas apre e chiude allegoricamente il film di van Leeuw passando dalla tranquilla accettazione di una condizione che per lui sarà breve all'ultima intensa inquadratura che urla il presentimento di un mondo che sta per cadere in pezzi e rimarrà macerie per molti e molti anni. In tempi di Covid "Insyriated" è un film "educativo" e "terapeutico" che getta nuova luce sulle nostre case come una tenda nuovamente scostata che lascia entrare i raggi di un sole rischiarante.
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