Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Christian (Claes Bang) è il curatore del museo di Arte Contemporanea di Stoccolma. Per rilanciare l’ex sede della casa Reale svedese, Christian punta deciso sull’ installazione dell’artista e sociologa argentina Lola Arias, “The Square”, una sorta di piazza a forma di quadrato che simbolicamente vorrebbe far riflettere sul tema della fiducia tra le persone e sulla crisi delle relazioni umane. Per il lancio di questa installazione, la direzione del museo si affida ad una società di pubbliche relazioni specializzata nel “Marketing Virage”, ovvero, nella promozione di un evento attraverso i social network. Della cosa Christian si occupa molto distrattamente, perché intanto gli è capitato di essere stato derubato del telefono e del portafoglio e per recuperarli adotta una strategia che gli procurerà qualche problema. Poi è impegnato in una storia sentimentale con Anne (Elisabeth Moss) a dir poco complicata.
“The Square” del regista svedese Ruben Östlund (Palma d’oro a Cannes) è un film che parla dell’incomunicabilità come l’effetto più immediato delle aspirazioni non soddisfatte. Lo scenario principale è quello del Museo d’Arte Contemporanea di Stoccolma, una sorta di territorio neutro che si pone come specchio potenziale delle criticità proprie del mondo, come un palcoscenico rappresentativo della crisi delle relazioni umane, del prevalere di un’ostentata vacuità intellettuale, dell’importanza spropositata data alle cose inutili. C’è un mondo che cambia molto velocemente e il film di Ruben Östlund cerca di mettersi in connessione con esso interrogandosi sul se l’arte contemporanea sia capace o meno di interpretarne gli scenari mutevoli, se sia in grado di penetrarne la complessità, di rappresentarne (appunto) le criticità, che sono di valori, di linguaggio, di comunicazione, di connessioni sentimentali, di immaginario.
La libertà d’espressione artistica perde di valore quando è privata delle appropriate coordinate etiche ed estetiche, requisiti necessari per far rimanere in un'unica sfera cognitiva chi produce arte e chi ne fruisce, chi la deve diffondere con chi la deve poter capire. In mancanza di tali coordinate, l’unicità di un’opera dell’ingegno umano rischia di valere meno rispetto all’indifferenziata fruibilità di una qualsiasi cosa messa in un museo. Così come, più convincente degli argomenti critici a supporto di un’opera d’arte, diventa la trasmissibilità “virale” attraverso i social della sua forma esteriore. L’arte deve saper interpretare la realtà diventandone strumento sublimante e non alienarsi dal mondo vantando un’esclusività autoreferenziale buona solo per pochi eletti. L’arte non deve abbassarsi al livello del senso comune dominante, ma neanche esaltare l’evanescenza, glorificare l’effimero, scandalizzare per il puro gusto di farlo.
Di questo si prende cura di riflettere “The Square”, e Christian incarna quell’universo mondo alle prese con la latente dissociazione tra la funzione intellettuale che si ricopre e l’essere umano alle prese con la realtà di tutti i giorni. Christian è l’uomo di potere appassito dalle sue innate debolezze, il filantropo ammalato di egocentrismo, un passionale che non sa esprimere emozioni. La vita di Christian è un susseguirsi di buone intenzioni, un mettersi sempre al servizio delle cause più giuste, un atteggiamento che però convive col peso inevitabile di un gap comunicativo con il mondo reale. Lui ha difficoltà a relazionarsi con gli altri perché sente tutto il peso dell’inconcludenza dei rapporti umani. Una scoperta arrivata all’improvviso che è come se lo avesse messo di fronte alla difficoltà impellente di fornire una soluzione sensata alle sue stesse azioni. La sua piazza simbolica, quel quadrato illuminato che è “un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri”, vuole essere la sua critica cosciente alla coeva crisi dei valori, il suo peronale altare al postmoderno attraverso cui constatare quanto gli esseri umani sanno essere altruisti, aiutare chi ne ha bisogno, solidarizzare col prossimo, approfittare della libertà d’espressione che gli viene offerta per orientarsi verso il perseguimento concreto e disinteressato del bene. Perché Christian è nel mezzo, tra il bisogno di comunicare i significati prodotti dal linguaggio simbolico dell’arte contemporanea e la difficoltà ad allinearli con l’immaginario mutevole di un mondo che cambia in fretta.
Centrale, bella ed assai emblematica è tutta la sequenza incentrata sulla “performance” di Oleg Rogozin (Terry Notary), che mette in evidenza la relazione esistente tra la libertà d’espressione e i metodi espressivi, tra un prodotto artistico che deve piacere e l’oggetto d’arte che deve saper scuotere. Siamo ad una lussureggiante serata di gala e Christian presenta al pubblico l’uomo scimmia. Questi si aggira fra i tavoli, tocca gli ospiti, si dimena, si ribella al suo “padrone” e alla fine si scaraventa su una donna come per violentarla. Il suo comportamento fa sorgere un dubbio che finisce per accomunare gli attori che costituiscono la finzione scenica con gli spettatori passivi del film : Oleg è rimasto nel limite prestabilito dalla sua esibizione artistica o ne ha consapevolmente superato il confine per produrre altri significati possibili ? Erano tutti attori preparati allo scopo di scandalizzare attraverso l’eccesso dei contenuti oppure Oleg si è ribellato alla vuota forma per suscitare delle reazioni finalmente vere ?
Se è vero che un difetto del film può essere costituito dall’eccessiva lunghezza di certe sequenze, è vero anche che (evidentemente) una cosa voluta da Ruben Östlund è stata quella di generare un effetto straniante attraverso il contrasto tra quello che si deve comunicare e come si intende farlo, proprio facendo ricorso a quest’espediente stilistico. La lungaggine di certi dialoghi, la difficoltà spesso riscontrata in Christian di dire quell’unica parola che occorreva dire, l’artificiosità con cui si affrontano le cose, l’insensatezza di molte azioni, sono tutte cose che riflettono l’ambientazione alto borghese di cui il film si nutre, un mondo che vive di gesti formali, di azioni effimere, di una solidarietà che occorre esibire. Un mondo che sopravvive ad ogni suo eccesso.
“The Square” è in definitiva un film totalmente immerso nel suo tempo, non facile rispetto a quello che (secondo me) vorrebbe comunicare. La verbosità dei contenuti è mitigata da spruzzate di paradosso che fanno qua e là capolino lungo la storia, cosa che però non lo alleggerisce del tutto dalla presenza di certe lungaggini superflue. Un film che ci voleva, arguto e raffinato.
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