Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
„L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via.“ (Gunther Anders)
Il binomio arte e vita è sempre stato motivo di indagine e di confronto, e potrebbe sembrare che a dispetto delle più severe critiche rivolte alle nostre società in crisi, in una modalità del tutto inconsapevole stiamo vivendo in un’epoca dove possono confluire entrambe verso un punto d’origine comune, uno zero assoluto (se così lo vogliamo definire) dove una coabita nell’altra attraverso continui disallineamenti del reale e della psiche. Un gioco costruito da materialità, immaginazione, tecnologia, assoggettamento alla dimensione pubblica a scapito di una privata sempre più fragile e sfuggente. Se nel fortunato film precedente Forza Maggiore (2014) veniva messo in discussione il ruolo sociale del singolo rispetto al proprio interno familiare, in The Square, premiato con la Palma d’oro a Cannes, il regista svedese R.Ostlund crea una situazione di conflitto tra i valori portanti della nostra cultura con quell’immagine a specchio in cui un uomo crede di rivelarsi pubblicamente agli altri con la capacità di sfuggire a se stesso. Per questo il regista sfrutta il ruolo di un importante curatore artistico di un museo di arte contemporanea, Christian, alle prese con la presentazione di una nuova opera, in grado di aprire scenari contraddittori quanto rivelatori. L’opera in questione è un semplice spazio di terra segnalato da un sottile cavo ottico che delimita un’area di cubetti in pietra di quattro metri quadrati. Il suo nome, The Square, vuole rappresentare lo spazio entro il quale ognuno può coesistere ed avere uguali diritti e doveri verso gli altri. Nell’era del più sfrenato edonismo individuale, il progetto artistico appare come una semplice utopia e le vicende che coinvolgono Christian vittima di un piccolo furto per strada esalteranno quel messaggio pessimistico che vede distanziarsi sempre più le persone, esasperare l’incomunicabilità, sottolineando la mancanza di fiducia nel prossimo. Di fronte ad un’espressione artistica a cui solo il mondo degli addetti ai lavori dà importanza e la comprende, c’è la quotidianità di Christian, alle prese con un senso di riconoscibilità della propria vita, che vorrebbe coerente, lineare e trasparente. Ma quale verità c’è in lui, nei suoi gesti quando deve verificarli nel rapporto con il suo prossimo, che si chiama secondo i casi, interesse, lavoro, amicizia o affettività? Chi, anzi, cos’è Christian secondo Ostlund? E’ la sua immagine pubblica, quella distorta e cannibalizzata dai media, l’unica che Christian possa sostenere agli occhi degli altri, e anche quello che apparirà come un suo gesto dignitoso viene equivocato e stravolto, totalmente fuori controllo. Non resta che rifugiarsi nella micro realtà, anche qui derivazione di due dimensioni, una teorica e una manuale e diretta. Nella prima rappresentazione in uno scenario bunueliano, si svolge una memorabile performance di un artista che irrompe in un salone comportandosi come un animale primitivo prima tra il divertito stupore dei presenti per poi sfociare nello sgomento e nella violenza. L’azione “artistica” risulterà discutibile però dimostra quanto sia indispensabile per dare una scossa ai presenti, per provocare in loro una reazione "umana" e ciò avviene quando la performance diventa più realistica e senza più freni inibitori. A questa che possiamo considerare la scena forte del film, il bravo Ostlund fa seguire l’incontro tra Christian e un vendicativo ragazzino che si lamenta dei modi con cui l’uomo ha cercato ciò che gli era stato sottratto accusando di furto gli abitanti di un intero palazzo, luogo in cui abita. Dunque ecco il confronto con la vita reale, ecco la misura delle capacità relazionali e comunicative che ritornano private, e l’uomo ne soffrirà la poca consistenza. Attraverso alcune metafore simboliche Ostlund accentua alcuni passaggi che offrono piani di lettura di semplice individuazione. Con una modalità di ripresa piuttosto efficace, in particolare con un gioco ripetuto di inquadrature a specchio, il regista confonde volutamente il piano visuale e invita a riflettere sull’oggetto della nostra osservazione, su quale parte poggia il nostro punto di vista e se esso possa essere veritiero. Il registro usato è quello già sperimentato nel precedente Forza Maggiore, in cui i contenuti sottotraccia sono decisamente superiori a quello che il film mostra, e questo forse rappresenta il vero limite del lavoro di questo interessante cineasta. I suoi personaggi tipo vengono tenuti a distanza da qualsiasi sfumatura psicologica, Ostlund li erige a prototipi sociali che in maniera inaspettata devono fronteggiare una valanga (come quella quasi vera di Forza Maggiore) che si presenta ad ogni momento della vita, sotto forma di un gesto o delle sue conseguenze, di un pensiero, di una reazione meccanica, capace di metterli in discussione di fronte agli altri e in seconda battuta, dolorosamente davanti a loro stessi, alla loro solitudine. Simile a quella dell’opera d’arte, posizionata in una sala deserta come un’anima in pena, destinata più al fraintendimento che alla comprensione.
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