Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Una bella grana per il critico o aspirante tale questo “The square”: un film strano, gelido, provocatorio, una satira antiborghese al vetriolo che ha fra i suoi numi tutelari Bunuel e Fassbinder, ma che lascerà piuttosto spiazzati diversi spettatori e non si pensava avesse le carte in regola per vincere una Palma d’Oro a Cannes.
Che cosa è degno di essere chiamato Arte oggi? Fino a che punto ci si può spingere per creare interesse e attenzione da parte del pubblico verso le manifestazioni dell’Arte contemporanea? Questi sono alcuni degli interrogativi che il regista pone col suo film, in una chiave evidentemente allegorico-simbolica che prende molto spazio rispetto alla trama vera e propria, abbastanza scarna per un film di quasi due ore e mezza. Per certi versi sembra quasi un aggiornamento delle tematiche di “Quinto potere” di Sidney Lumet, con una forte dose di ironia o sarcasmo di cui fanno le spese diversi personaggi, a cominciare dal protagonista Christian, direttore di un museo di Arte contemporanea a Stoccolma che ne viene fuori come un inetto o comunque un personaggio sgradevole, privo di quell’umanità e carità di cui si riempie la bocca per pubblicizzare l’ultima installazione del museo chiamata appunto “The square”. Il film secondo me ha un andamento piuttosto divagante che non sempre aiuta la partecipazione dello spettatore: certe annotazioni su alcune vicende collaterali sembrano messe lì e poi non sviluppate a dovere, così come la parte finale non chiude in una maniera del tutto soddisfacente la vicenda principale. Certe scene come quella dello spettatore con la sindrome di Tourette che inveisce con le parolacce sembrano più delle boutades comico-grottesche volutamente eccessive che dei momenti plausibili all’interno di un film certamente non convenzionale. Da notare anche il gusto ardito di alcuni accostamenti, come la rielaborazione del motivo dell’Ave Maria nella scena di sesso. Tuttavia, all’attivo restano anche molte intuizioni che colgono nel segno come la presenza continua dei mendicanti, uno stile che non ha paura di scuotere lo spettatore e che visivamente è già maturo, una pregevole interpretazione dell’attore danese Claes Bang, che rende bene il vuoto interiore di Christian (mentre le figure di sfondo sono così anonime da non permettere agli altri interpreti caratterizzazioni approfondite, se si esclude forse solo l’americana Elisabeth Moss). A Cannes Pedro Almodovar lo ha premiato per l’acutezza nel rappresentare la dittatura del “politically correct”: una Palma sembra un onore forse spropositato, meglio sarebbe stato un premio minore, in ogni caso Ostlund resta un regista da tenere d’occhio e con cui fare i conti in futuro.
Voto 7/10
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