Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
– Segno dei tempi (stretti): ai 15 minuti di fama di Warhol si sostituiscono i 15 secondi di "attention span" dell'utente della rete. L'arte si adatta e insegue quei 15 secondi, quel picco emotivo sconvolgente che la rende sempre più simile alla pubblicità. Arte come pubblicità, slogan come aforismi (targhe con formulette buoniste) : fast food per menti pigre, tutto si mischia e si confonde impedendo al fruitore di capire quanto sia grosso l'iceberg sotto il pelo dell'acqua. Ci vuole più tempo. Con più tempo si può anche fare un percorso con le proprie figlie e associare con loro l'arte a una narrazione, a episodi di vita, alle domande e alle risposte suscitate dalle creazioni. Lì forse anche l'arte che sembra più banale riacquista vita. Ma è la vita degli strati più sotterranei, e non bastano 15 secondi per stanarla.
– Östlund cerca momenti in bilico, evita e intorbidisce le emozioni nette (e quindi non si adatta e non insegue quei 15 secondi). Come già in FORZA MAGGIORE (scena del crollo emotivo paterno, scena della famiglia nella nebbia, scena finale...) veicola sentimenti incerti, mutevoli, di sintesi. E in questa circostanza è anche più naturale, perché questa incertezza appartiene all'arte di cui si parla e più in generale alla comunicazione del presente: ce lo dice la scena iniziale in piazza, dove se ti chiedono di salvare un essere umano è per venderti qualcosa, e se qualcuno grida aiuto è per rubarti portafoglio e cellulare (e più avanti c'è anche il bambino che chiede lamentosamente aiuto assediando il protagonista). Se anche delle chiare richieste d'aiuto diventano messaggi vuoti, indecifrabili o ingannevoli (così come non significano più niente i molti senzatetto sparsi per la città...almeno finché non hai bisogno che ti tengano d'occhio le buste) come può l'uomo in primis e poi anche la sua arte comunicare un significato limpido e forte e riempire lo spazio di silenzio e imbarazzo tra le persone... Per ciò che riguarda l'incertezza nei rapporti umani non mancano gli esempi: vedi i divertenti imbarazzi e le incomprensioni tra il curatore del museo e la giornalista (il buffo tira e molla postcoito...), o i difetti di comunicazione tra lo stesso e il suo assistente, e vedi anche la comparsa di un lato più caloroso e meno superficiale del curatore quando entrano in scena le figlie. Da quel momento nel sempliciotto superficiale vediamo anche sentimenti più intimi e sottili, vediamo relazioni affettive che riconosciamo come reali, anch'esse difficili, mutevoli e in bilico (alcune espressioni insondabili delle bambine...). Con più tempo anche il protagonista muta, acquista vita e spessore.
– Umorismo artistico e ironia che fa arte distruggendo altra arte (non solo la bambina e i monticelli di ghiaia). L'arte che mangia se stessa. Una comica malattia autoimmune che ci dice che la fine (dell'arte) è vicina? No, si è sempre fatto, equivale ad un sano parricidio. Arte come divertimento distruttivo-rivoluzionaro (in tal caso l'incipit con la rimozione/distruzione della statua equestre sarebbe una dichiarazione d'intenti). Una risata vi seppelirà, insieme alla vostra arte. Il tizio con la sindrome di tourette scompagina completamente l'importanza e la compostezza e l'intero senso di un dibattito artistico. Seppelliti e cancellati da un'innocente, inattaccabile, liberatoria, irresistibile trivialità (una performance che dissacra, come tanta altra arte)... L'allegra distruzione si riversa continuamente e felicemente fuori dalla cornice preposta. (Mi è sembrato di sentire un rumore di sedie che continuano a crollare...) Rompere gli argini. Far vivere l'arte e "vivere l'arte": come il performer-gorilla, ecco un atto artistico genuinamente rivoluzionario, oltranzista, imprevedibile, divertente e pericoloso (per tutti, performer compreso). Del resto nessun artista degno di questo nome ha mai dubitato che l'arte vera debba essere rivoluzionaria e che conti molto più del suo autore, a tal punto che vale sicuramente la pena di rischiare la pelle per portare a compimento la propria creazione.
– Ma forse c'è di più in quel "vivere l'arte". THE SQUARE è anche arioso e insofferente alla polvere e al chiuso dei musei. L'arte è più fuori che dentro i luoghi di esposizione, dove rimangono mucchietti di ghiaia, cataste di sedie (col disastroso sound in loop) e un quadrato fatto di sampietrini tagliati via da una piazza pubblica, come dire: macerie. Mentre fuori, complice la partecipazione di "creazioni" vive e reattive, le provocazioni e i significati risultano più intensi e durevoli. Il film propone una collezione di esperienze, performance e installazioni artistiche estemporanee, da cogliere nel flusso della narrazione. Come il senzatetto nel grande magazzino chic circondato da sporte di lusso, o il bambino che assedia corpo e mente dell'adulto pretendendo delle scuse, o la performance iniziale in piazza che scredita completamente il concetto di aiuto e fiducia (i temi dell'opera "the square"), o come la disperazione del protagonista che rovista tra rifiuti tramutati quasi in un quadro astratto, e ovviamente l'incontro carnale tra il curatore del museo e la giornalista, con una menzione particolare per il momento in cui loro si chiudono in camera a dar sfogo ai propri istinti mentre sul divano una scimmia si dedica serafica all'arte del disegno.
– Alla fine ho come l'impressione che il cinema ne esca esaltato. Perché si presenta come il solo mezzo in grado di catturare l'incertezza, la fuggevolezza e la vitalità di quest'arte che non sa star ferma e vuole ancora dissacrare, il solo in grado di narrare, di accompagnare l'arte fuori dai musei e oltre quei 15 secondi, oltre il momento in cui l'attenzione è catturata e lungo un percorso di emozioni mutevoli e incerte, a volte in bilico, a volte perse nello sguardo vuoto di una bambina, a volte crogiolo di sensazioni indecifrabili. Ad immagine e somiglianza dell'uomo-creatore.
P. S. – Come l'umorismo molta arte "d'avanguardia" gioca sul breve, punta sulla fiammata, su quel picco sensazionale e sconvolgente. Sono due diversi tipi di fast-food. Far ridere prendendo di mira quest'arte sembra quindi doppiamente rischioso. Il rischio è di ridurre tutto a una serie di singoli "sketch" su singole opere. Sketch magari ironici e intelligenti, ma slegati. Se THE SQUARE funziona è anche perché è sostenuto da un discorso "connettivo" che parla proprio di ciò che lega gli esseri umani tra di loro e con le esperienze artistiche: 1) Il medium = una comunicazione disfunzionale che ha perso senso, forza e autenticità (vedi anche il curatore che pianifica e prova allo specchio un discorso che prevede che a un certo punto metta via il discorso scritto e finga di andare a braccio); 2) Relazioni interpersonali dominate dall'incertezza, dall'incomprensione, dall'incapacità di (o dalla disabitudine ad) approfondire (ma anche dal tentativo di stabilire un legame con le figlie); 3) Il rapporto tra uomo ed arte. Arte non come ninnolo abbandonato tra le mura di un museo, ma come esperienza che preme per evadere e tornare al creatore, rientrando a forza dove ci sono ancora emozioni da svegliare a suon di risate, provocazioni, rivoluzioni, interruzioni volgari e distruzioni, se necessario. La bambina che esplode allora potrebbe non stonare affatto. Come tutto il resto parla di arte, di comunicazione, di comunità e di rapporti umani. Deve esplodere una mendicante, perdipiù bambina e perdipiù biondina, perché vi accorgiate dei mendicanti e perché l'appello a bontà e solidarietà dell'opera "the square" generi qualche frutto?... Tra l'altro, se la bambina che esplode ha un senso allora è ancora pubblicità o diventa invece arte? C'è chi dice che debba essere intenzionale per essere considerata arte. I giovani esperti di viralità del film cercavano solo di fare pubblicità. Ma Östlund no. Östlund intende.
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