Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Un film ironico che non è "innovativo", come l'arte di cui parla. E in questo ha ragione da vendere.
The Square è il titolo di un’installazione dell’artista argentina Lola Arias sul pavimento del piazzale davanti al Museo di Arte Contemporanea di Stoccolma.
La severa facciata ottocentesca del palazzo contrasta efficacemente con la destinazione d’uso, una enorme scritta luminosa le brilla sulla fronte e nel grande piazzale può capitare di tutto, il labile confine fra le arti rende possibile l’impossibile.
The Square è un largo quadrato delimitato da un perimetro luminoso, una resistenza, un passaggio di energia che già tempo fa Gilberto Zorio, nome di spicco dell’Arte Povera, corrente artistica resa celebre negli anni sessanta da Germano Celant, usò per scrivere “ Il confine è una linea immaginaria che si concretizza con la violenza ”.
Il richiamo è doveroso perché di violenza si tratta, nonostante con ironia (involontaria?), un’epigrafe dica che la piazza è il luogo stupendo dove tutti hanno stessi diritti e doveri.
Ma non è l’opera in sé a galvanizzare la nostra attenzione. E neppure fanno scattare sindromi di Stendhal le numerose piccole piramidi di pietrisco disposte a terra in una sala del Museo che un inserviente pasticcione spazzerà via con la macchina raccogli-rifiuti. Tutto si può sistemare e le montagnole saranno ben presto ricostruite.
L’arte è ricerca della parola che “illumina d’immenso”, ma a dirla non sono buoni tutti.
Soprattutto quando si usano parole che con l’arte hanno ben poco a che fare.
E allora si badi bene a quello che il buon Christian (Claes Bang), longilineo e un po’ tontolone curatore del Museo, dice alla bionda giornalista che lo sta intervistando:
“Arte all’avanguardia, innovativa. La competizione è feroce”.
Basterebbe per impiccarlo al pennone più alto, e invece no, le cose stanno così e la piazza, l’agorà, il centro della vita sociale, quello spazio di cui l’homo sapiens sapiens cominciò a sentire il bisogno dal giorno in cui scese giù dagli alberi e scorrazzò per la savana libero di diventare uomo e lasciarsi lo scimmione alle spalle, bene, quello spazio è diventato un luogo spaventoso, dove si fa scoppiare, letteralmente scoppiare, una bambina bionda (si badi, non una negretta) per fare audience, pubblicizzare al meglio l’opera sui social, attirare l’attenzione, e passi se lo sdegno monta e volano parole di fuoco, lo sdegno monta sempre e pure le parole di fuoco, poi tutto passa e i ruoli restano, come gli homeless sdraiati a terra davanti alla stazione e le belle case dove i ricchi riposano protetti e felici.
Questo è il messaggio del film, ristretto in poche parole delle tante che dice con indubbia facondia e notevole eleganza, ma
non vuol essere innovativo Ostlund, tutt'altro, il suo non esserlo crea sintonia con quello che vuol dimostrare e il corto circuito diventa così evidente.
Innovare è impresa oggi semi-disperata, e quello che in piazza può accadere e che il film ci mostra è quanto di più vecchio e ripetitivo sia accaduto e continui ad accadere in questo mondo. E molto probabilmente continuerà ad accadere.
Indifferenza, violenza, ipocrisia, rampantismo e corsa all’oro, fame e malattie associate, uomini e donne che suonano l’arpa o il violino all’angolo delle strade con il cappello in terra e uomini e donne che passano in fretta con borse e borsette, in pratica tutto il contenuto del vaso di Pandora,
Quello che Östlund ci mostra è uno spaccato molto visto, nulla di nuovo sotto il sole, ma lo fa con begli accorgimenti stilistici, momenti di grande tensione e altri di simpatica ironia (il condom stiracchiato come un elastico nella lotta fra i due dopo “la cosa”, l’artista- scimmione che salta fra i tavoli “di quelli che contano” convenuti ad ammirare l’opera) l’attenzione dello spettatore resta viva per la lunga durata del film (142 minuti) la colonna sonora scorre egregia dal contemporaneo, fra cui fanno capolino i Genesis, all’ Orchestral Suite No. 3 D-dur di Bach in versione Jazz Swingle Singers che convive felicemente con l’Ave Maria di Gounod nella versione di Yo-Yo Ma & Bobby McFerrin che passa a intervalli regolari quando meno te l’aspetti.
Ciò detto, la post-visione ci lascia però freddini.
Cosa abbiamo visto, di cosa abbiamo parlato in quel dialogo muto che lo spettatore intesse ogni volta con le immagini sullo schermo? Cosa che non sia stato già tanto detto da non essere più capace di darci quel famoso colpo al cuore?
Se l’arte dev’essere “ innovativa perchè la competizione è feroce” non ci siamo, delle due l’una.
Almeno dai tempi di Fidia e del suo amico Pericle.
Il film va visto, è bene che abbia vinto anche a Cannes, dagli agoni di Olimpia in giù l’umanità ha sempre voluto distribuire corone d’alloro, e poi è ben curato, mette sullo scacchiere quasi tutti i mali della contemporaneità, li passa al tritacarne con indubbie doti di regia.
L’unico problema è che non è innovativo, come l'arte di cui parla. E in questo ha ragione da vendere.
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