Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Pellicola che fa della provocazione il suo credo, The Square spara sentenze come cartucce umide e irrita per lo sdegno prefabbricato che indirizza ai mali della nostra società ipocrita. Imitandola a perfezione nei modi e nei toni.
L’interrogativo è legittimo. Cosa sarà passato per la testa degli eminenti giurati di Cannes 2017, quali inconfessabili tensioni o pressioni abbiano spinto uomini e donne di cinema come Almodovar, Maren Ade e Paolo Sorrentino ad assegnare il massimo riconoscimento del festival all’indigeribile, lezioso ed irritante pastrocchio che ha per titolo THE SQUARE?
D’accordo, la selezione era tutt’altro che esaltante. Con la sola eccezione di 120 battiti al minuto, per il quale il Gran Premio della Giuria è subito parso consolatorio (ma tant’è), buona parte del Palmares ha fatto cadere le braccia: Sofia Coppola a rivisitare l’incompreso capolavoro nero di Don Siegel facendolo rimpiangere; Lynne Ramsay a colpi di truculenza fuori tempo massimo con addirittura due ricompense; il sopravvalutato Yórgos Lánthimos, in lizza come erede del peggior Haneke col suo peggior film. E per fortuna che nessuno abbia avuto la malsana idea di aggiungere raccapriccio alla vergogna includendo tra i laureati anche L’Amant double di François Ozon, una delle pellicole più imbarazzanti e involontariamente comiche dell’anno. Brucia, al di là di tutto, l’esclusione di Good Time dei fratelli Safdie, il più vertiginoso e spregiudicato dal punto di vista tecnico e narrativo, che avrebbe strameritato almeno uno dei premi maggiori – regia, sceneggiatura o interpretazione maschile.
Ma sto divagando, ritardo candidamente il momento in cui finalmente affrontare il film di Ruben Östlund sulla tastiera, sopraffatto dalla noia e dal fastidio provati durante la proiezione.
È stato facile per molti lasciarsi prendere dall’entusiasmo all’uscita del precedente e fortunato Forza maggiore (Turist). Il realizzatore svedese è abile ed efficace: virtuosismo raffinato con un debole per il piano-sequenza, gusto tutto scandinavo per la provocazione, contrapposizione impeccabile tra grandi spazi e ambienti claustrofobici, missione “valori borghesi alla berlina” ben portata al termine. E, difatti, il meccanismo funzionava alla grande. Si usciva dalla sala divertiti e, soprattutto, confortati per non essersi totalmente riconosciuti in quei desolanti “ritratti al vetriolo”: evviva, la valanga ha risparmiato anche noi.
The Square getta la maschera luccicante e ci si ritrova davanti un palloncino sgonfio e floscio.
Östlund incartoccia l’intera storia, che si proclama inconciliante, con un tono sentenzioso e subdolamente moralista. In due lunghissime ore e venti, distribuisce lezioni a destra e a manca utilizzando cinicamente gli stessi strumenti coercitivi di cui accusa le sue marionette. E nei momenti che secondo copione aspirano ad essere più graffianti, non va oltre la caricatura dozzinale (i due giovani e rampanti creativi della comunicazione, la festa danzante inaugurale) o lo sdegno più ipocrita (la reazione dei commensali alla violenza del performer nella cena ufficiale).
Armandosi del più comodo populismo tanto alla moda in quest’epoca, spande la sua riprovazione sul mondo da cui esige approvazione e riconoscimento perché, grazie alla sua “arte” – non posticcia come quella esposta nelle gallerie, nuove Babilonia del mondo imploso contemporaneo – si può ergere a giudice e a divertito officiante.
Non può d’altronde esimersi dal mostrarci presunti momenti di simbolismo visionario (l’inquadratura dall’alto sulla ricerca spasmodica sotto la pioggia tra un mare d’immondizia; la ripresa “rotante” di una dolorosa salita per le scale di un palazzo fatiscente) che, per quel che mi riguarda, non vanno oltre un estetismo un po’ farlocco.
Lo sfacelo viene evitato grazie a un ammirevole Claes Bang, quasi misurato tra un campionario di vezzi artistici, e ad un'unica scena realmente riuscita: lo spettatore con la sindrome di Tourette durante l'incontro con un artista invitato al museo.
In sala, mi sono sforzato per non imitarlo.
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