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Sweet Country

Regia di Warwick Thornton vedi scheda film

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La recensione su Sweet Country

di supadany
6 stelle

Venezia 74 – Concorso ufficiale.

Storicamente, la convivenza tra culture differenti, tanto più se agli antipodi per sviluppo e tradizioni, ha sempre presentato delle problematiche. Laddove è in vigore la legge del più forte, anche la giustizia, sempre che sia possibilitata a operare, non può garantire la tutela una volta usciti da un tribunale. A volte questa struttura nemmeno esiste e per quelle piccole comunità lontane dalla civilizzazione, il suo giudizio è tranquillamente bypassabile.

Australia, 1929. Appena rientrato dal fronte, Harry March (Ewen Leslie) mostra atteggiamenti razzisti che escludono ogni forma di dialogo con gli aborigeni.

Quando il caritatevole Fred Smith (Sam Neill) lascia in custodia la sua proprietà a Sam Kelly (Hamilton Morris), un aborigeno di cui si fida ciecamente, quest’ultimo si trova a dover fronteggiare Harry, conscio di trovarsi di fronte a un uomo che non si farebbe alcuni tipo di problema a ucciderlo.

La sua scelta difensiva lo costringe alla fuga insieme alla moglie, inseguito da un manipolo di uomini con l’incarico di catturarlo, in modo tale da garantire alla giustizia di fare il suo corso.

 

scena

Sweet Country (2017): scena

 

Regista da noi pressoché sconosciuto, l’australiano Warwick Thornton prima di approdare a Venezia 74 aveva già assaporato il clima festivaliero, uscendo dal festival di Cannes 2009 con la prestigiosa Caméra d’or per Samson and Delilah.

Sweet country condivide con il succitato titolo i luoghi incontaminati, la presenza degli aborigeni e la crudeltà che subiscono nel momento in cui la loro strada incrocia quella dell’uomo bianco sbagliato (ed evidentemente non sono pochi a rientrare in questa categoria).

L’impianto dell’opera mostra subito gli intenti limpidi di un autore che alla fiction ha alternato episodi documentaristici: l’orizzonte geografico tende all’infinito, avvalendosi di territori australiani lontani da occhi indiscreti (è stato girato nelle altipiani delle MacDonnnels Rangers), l’unico rumore che si ode è il cicaleggio e nel mezzo del nulla la convivenza tra gli aborigeni e gli uomini bianchi è macchiata dai soprusi, da vincoli elusi solo da pochi cuori credenti, in un luogo sprovvisto anche di una chiesa e quindi dimenticato da Dio, con una conflittualità che può predire solo foschi presagi.

Infatti, nel cuore di un’anima dura e aspra, la violenza è inevitabile, un marchio distintivo proposto senza una virgola superflua, mostrato attraverso uno sguardo asciutto e un ambiente arido di comprensione, sostituita dall’odio.

Queste caratteristiche sono propedeutiche allo sviluppo drammatico, che presenta anche vere e proprie caratteristiche western, con la volontà di prendersi tempi lunghi, inglobando tra le sue qualità anche la contemplazione, l’elemento principe di un lungo inseguimento.

Quando le strade si ricongiungono, è il momento di apporre la riflessione, quella più facilmente intuibile ma anche la più coerente, in grado di mostrare quanto sia più facile condannare che perdonare e come la giustizia, di stato o divina che sia, finisca in seconda fila quando di mezzo s’instaura la prepotenza bieca e ignorante dell’uomo.

Alla fine, i conti tornano, addirittura in maniera eccedente, come se la compostezza, la disciplina e il rigore fossero i costituenti più sentiti del mantra dell’opera, peculiarità che comunque consentono di non vanificare mezza parola, evidenziando il fulcro tematico con coerenza e adesione.

Scrupoloso e sentito, visivamente seducente.

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