Regia di Warwick Thornton vedi scheda film
"Sweet Country" narra una storia di razzismo e violenza nei territori inospitali del Nord dell'Australia per ricordarci quanto fosse comune per la popolazione bianca e anglofona trattare gli aborigeni come bestiame. Ambientato negli anni '20, si sentono gli echi lontanti della Grande Guerra, il racconto intreccia le personali vicissitudini di Sam e del giovanissimo Philomac, entrambi aborigeni, alle prese con il risentimento dell'uomo bianco.
Il regista Warwick Thornton segue i fatti successivi alla sparatoria che coinvolge Sam e l'ex soldato Harry March, ma approfitta dell'occasione per tratteggiare le personalità di ciascun personaggio rendendo il racconto un ensemble di voci in chiaroscuro. Se è vero che ogni protagonista del racconto ha una dimensione propria che permette a Thornton di analizzare un'epoca storica precisa di cui ciascun uomo e ciascuna donna sono figli e prigionieri, è vero anche che il ruolo di Sam e Philomac si eleva sugli altri per significato e importanza. Sam, sparando al brutale Harry March, scatena gli eventi che lo costringono alla fuga e alla resa successiva. Sam è il soggetto attivo su cui si concentra l'azione e che determina il comportamento di coloro che lo braccano e lo giudicano. Viceversa il ruolo di Philomac, il ragazzino imberbe che appartiene al ranchero Mick Kennedy, è sostanzialmente evocativo. Il comportamento del ragazzino funge da innesco alla tragedia benché Philomac non sia direttamente responsabile dell'omicidio. Egli è semmai l'emblema di una nazione piegata al potere dei bianchi ed alcune sequenze ad alto valore aggiunto avvalorano il significato simbolico della sua figura ribelle. Ritengo che il centro dell'opera sia un dialogo tra Philomac e lo zio in cui il giovanotto viene redarguito per il comportamento ambiguo dimostrato col padrone. Philomac brama l'accettazione dei bianchi e di costoro emula i comportamenti oltraggiosi. Ma se rubare lo fa sembrare, agli occhi aborigeni, alla stregua di un viso pallido è vero che assomigliare ai bianchi non lo renderà un uomo bianco, dai quali verrà sempre disprezzato e trattato come schiavo per cattiveria (March) o semplice codardia e convenzione sociale (Kennedy). Il rifiuto delle tradizioni del popolo aborigeno renderà, anzi, il giovane Philomac un estraneo ai suoi simili rendendolo apolide nel suo stesso paese, trattato come uno schiavo da chi vorrebbe emulare, rinnegato da chi vorrebbe affrancarsi. Ciò è quanto spiega l'adulto al ragazzino nella speranza di una riflessione che gli faccia prendere la giusta via. Nel personaggio di Philomac vi è il nuovo corso della gioventù aborigena divisa tra senso di appartenenza alle proprie tradizioni orali e desiderio di scalata sociale secondo criteri propri della società occidentale. Altre due scene sono emblematiche della direzione sbagliata intrapresa dal ragazzino. Nella prima egli deride il povero Sam invocando, ingenuamente ma brutalmente, il peggiore dei castighi. Nella seconda getta l'orologio da taschino, rubato al cadavere di March, che lo ha reso, per un po', la persona che credeva di poter diventare. Il regista si mantiene, volutamente, sul vago sulla vendetta consumata fuori città ma lancia un paio di sassolini nello stagno fetido della responsabilità civile di un sistema bianco di somministrazione della giustizia che adotta un ottica personale e violenta anziché comune e legale. Ma, cosa che mi ha colpito ancor di più, lancia un masso nella pozzanghera d'insoddisfazione e odio in cui Philomac sguazza. Il ragazzino dimostra la propria immaturità invocando la morte di un suo simile credendo di ottenere agli occhi del padrone l'accettazione di sé, in un ambiente che lo reputerà sempre e comunque indegno per colore della pelle e tradizioni. Il regista aborigeno lascia intendere, dunque, che l'ultimo sparo sia dei cittadini bianchi, che non hanno gradito il verdetto della giustizia, quanto del ragazzo a cui attribuire un atto di estrema ma coerente vigliaccheria che gli possa offrire il rispetto e la benevolenza della comunità bianca. Entrambe le interpretazioni sono plausibili benché la seconda abbia ricadute emozionali più feroci. Qualunque sia il nostro orientamento a tal proposito la cipolla che scivola dalle mani nelle acque chiare del deserto simboleggia l'abiura di Philomac verso quel mondo falso e brutale a cui aveva guardato con ammirazione. La presa di coscienza della propria identità ricorda l'ultima sequenza di "Mission" in cui i bambini guaraní, nuovamente nudi, si riappropriavano del fiume e della loro cultura millenaria, accantonata per un po' dalla fatua protezione di un falso dio europeo.
Il film si avvale di un'ottima fotografia che esalta il colore rosso della terra australiana, di una perfetta sequenza di immagini in campo medio/lungo che rendono il paesaggio torrido e sterile degli aborigeni protagonista assoluto di un'odissea della coscienza. Splendida la sequenza dello stupro per lentezza, scrupolo e intensità drammatica mentre i continui flashforward anticipano la tragedia conferendo un sentore di pacata ineluttabilità nel silenzio di Dio e nella depravazione degli uomini.
"Sweet Country" è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 dove ha ottenuto il "Premio Speciale della Giuria" e ha consacrato il lavoro di una voce unica della nazione aborigena.
Cinema d'impegno civile, che non rinuncia ad un' autorevole resa formale, da recuperare sicuramente, possibilmente in lingua originale visto il tremendo doppiaggio italiano esibito dalla piattaforma come unica opzione d'ascolto.
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