Regia di Mario Brenta vedi scheda film
Vita di periferia nella Milano (per alcuni da bere, per altri invece da sudare per arrivare integri a fine mese) di fine anni ’80.
Una giovane operaia single vive in un anonimo appartamento all'interno di un complesso immobiliare vasto e popoloso, con il suo bimbo piccolo a carico, di nome Maicol (si, scritto proprio come si pronuncia, come era ed a volte è ancora prassi - agghiacciante - di italianizzare nomi stranieri, derivanti spesso da passioni infervorate dei genitori per divi d’oltreoceano o comunque stranieri).
La donna è operaia presso una industria manifatturiera specializzata in calze, e nel giorno prima della pausa settimanale si dà malata, verso la tarda mattinata, accusando un finto malore, per potersi organizzare, come ogni sabato, per uscire a ballare con le amiche ed un ragazzo afuggente che ella invece intende frequentare.
Un problema ulteriore si presenta quando, per diversi contrattempi, nessuno tra i vicini e conoscenti nel palazzo si presta, contrariamente all’abitudine ormai diffusa, a dare ospitalità al piccolo durante l’assenza della madre.
A quel punto la donna, stressata, forse in preda ad un attacco di panico, decide di portarsi con sé Maicol, allettandolo con la promessa di portarlo al cinema.
Sulla metro la donna adocchia per puro caso fortuito l’uomo a cui da tempo è interessata, e per questo, forse colta da un raptus, esce di scatto dal convoglio, lasciando il piccolo solo all’interno mentre il veicolo riparte, con l'intento di raggiungere l'uomo.
Maicol, timido, impacciato, solo, attaccato al suo mondo fatto di fantasia e di vermi striscianti nel deserto apprezzati durante la visione del film Dune, trascorrerà tutta la nottata sulla linea metropolitana, sballotato su e giù da un capolinea all’altro, per poi essere raccolto da un addetto alle pulizie, dopo che l’indifferenza del via vai quotidiano, distratta talvolta da qualche sporadica generica attenzione da parte del mondo degli adulti, ha esercitato sul bambino la sua fredda e impersonale parte all'interno di un via vai quotidiano da formicaio cittadino.
Il cinema raro, sporadico e anche per questo prezioso di Mario Brenta, il più fedele e valido discepolo della scuola e dello stile "olmiano", riprende la vita di tutti i giorni, il via vai della routine che avanza e rende tutti come automi che vivono per arrivare all'agognato fine settimana, che ogni svolta si spera, quasi sempre invano, rivelarsi risolutivo e foriero di novità esaltanti.
Dopo l'esordio con il quasi leggendario ed introvabile Vermisat (se qualcuno ha notizie di come recuperarlo, sono lieto di accettare indicazioni e suggerimenti in merito perché mi interessa davvero tanto riuscire a vedere questo film molto raro), e prima del mirabile adattamento da Buzzati de Barnabo delle montagne, Brenta abbozza una storia di "ordinaria cheta follia" ed immaturità quotidiana per tracciarci un ritratto angosciante, ma veritiero come non mai della banalità del vivere quotidiano, rapportato all'epoca in cui il film è stato concepito e girato.
La quotidianità di trascinarsi avanti, lo squallore della realtà senza colori che circonda ed inghiotte dentro di sé vite intere legate a ritmi e ricorrenze, appuntamenti e ciclicità che rendono gli individui esseri monotòni come macchinari programmati per ripetersi all'infinito, è filmata da Brenta con un effetto straordinario quanto a realismo e a descrizione scrupolosa e quasi documentaristica del fenomeno.
Però Maicol ha dalla sua anche la forza di una storia che è un racconto di vita e di quotidianità, che non ha bisogno di clamori, di effetti a sorpresa, di bambini zuccherosi ed ottimisti: preferisce al contrario concentrarsi sul piccolo, taciturno, indifeso e un pò strabico Maicol, per renderlo partecipe di un'avventura impacciata ma reale, che per lui non è molto diversa da un viaggio nel deserto in fuga dai vermi striscianti del noto film di Lynch, per il bambino un fantasy come tanti, ma in grado molto più di tanti altri di fargli vivere tratti di una vita distaccata dal grigiore senza uscita della sua triste realtà di periferia.
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