Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Film prodotto nel 2017, cinquant'anni dopo i fatti che racconta. Di scottante attualità pensando a quel che sta avvenendo in questi giorni negli Stati Uniti. Ottimi attori e grande regia.
Torna ad essere di scottante attualità in questi giorni il film di Kathryn Bigelow che racconta l’uccisione di tre uomini di colore ad opera di poliziotti, avvenuta a Detroit nell’estate del 1967, durante un’ondata di sommosse che sconvolsero numerose città degli Stati Uniti. La vicenda è raccontata in maniera passionale e perfino brutale, con l’intento palese di suscitare nello spettatore sentimenti di rabbia e indignazione. Trovo nondimeno ingeneroso, come ho letto in alcune recensioni, accusare la regista di compiacimento nel rappresentare il sadismo e la crudeltà degli agenti di polizia nei confronti delle loro malcapitate vittime. Mi riesce infatti difficile scovare una qualsiasi attenuante per atti di gratuita violenza perpetrati da sedicenti tutori dell’ordine disposti a violare ogni norma procedurale pur di dare sfogo a rancori e pregiudizi razziali inammissibili in una società che si autodefinisce civile.
Il film è diretto con mano ferma e ritmo incalzante. La lunga parte centrale si svolge a porte chiuse, all’interno del tristemente noto Algiers Motel, nel quale i poliziotti si abbandonarono ad un sadico interrogatorio teso a far emergere l’identità di un presunto cecchino. Da una parte e dall’altra, gli interpreti sono in egual misura convincenti, assumendo i reciproci ruoli in modo appassionato e realistico. Sono attori che conosco molto male, anche per il genere di pellicole cui hanno dato il loro volto, ma sono rimasto colpito in particolare da Will Poulter, nel ruolo del più nevrotico e perfido agente torturatore. Un viso pulito dallo sguardo glaciale, un duro solo in apparenza, uno sbirro tutto d’un pezzo che poi si rivela un grande vigliacco. Kathryn Bigelow trova in lui l’interprete ideale per una figura chiamata a provocare un senso di nausea. Ci sono poi due donne tra gli uomini di colore trattenuti nel motel, Hannah Murray e Katlyn Dever, due attrici di pelle bianca per me altrettanto sconosciute, capaci di incarnare con disarmante spontaneità le classiche “scrofette” ingenue e stupidelle che improvvisamente si trovano implicate in un torbido gioco fuori dalla portata delle loro capacità intellettive. A dispetto della loro debolezza e ambiguità, riescono a incutere empatia o forse solo commiserazione. Resta che le due interpreti appaiono decisamente brave. Altrettanto meritevole di citazione l’attore inglese John Boyega nel ruolo di Melvin Dismukes, una guardia privata coinvolta nella vicenda per puro caso, ma che rischiò di essere messo sotto accusa per il colore della sua pelle, al fine di mascherare le malefatte dei veri colpevoli. Prima delle riprese, John Boyega ha avuto l’opportunità di incontrare il vero Melvin Dismukes, rendendo ancor più credibile la sua umanissima partecipazione. Altro personaggio realmente esistito è Larry Reed, membro del gruppo musicale “The Dramatics”, trovatosi anch’egli nel motel con un amico e le due ragazze di cui sopra. Inutile dire che pagò a caro prezzo la sua compagnia con due donne bianche, uscendone malconcio ma vivo. Traumatizzato, lasciò il gruppo.
Una delle scene migliori del film resta per me l’udienza finale in tribunale. Anche se la violenza cui si è assistito in precedenza ha messo a disagio ed è stata a tratti difficile da sopportare, rivedere uno dopo l’altro i protagonisti della vicenda e ascoltare tutti gli inconciliabili punti di vista costringe a ripercorrerne tutto l’orrore, ricreando la tensione appena sopita. La sentenza di assoluzione dei poliziotti da parte di una giuria composta da bianchi non sorprende. In fin dei conti non è la prima né l’ultima, ma aiuta ancor più a comprendere gli avvenimenti che percorrono gli Stati Uniti in questi giorni.
Desolante, ma per me uno dei migliori film di una regista che stimo sempre di più.
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