Regia di Antonio Piazza, Fabio Grassadonia vedi scheda film
Un grande film, non solo sulla mafia, ma soprattutto sulla adolescenza.
I protagonisti sono vittime, realisticamente, del mondo in cui sono immersi, in particolare dei loro genitori: mafioso il padre di lui, fredda e disumana la madre di lei. Evidentemente i restanti genitori non rispecchiano di virtù, per avere scelto di condividere la vita intera con tali mostri, che rendono la vita terrificante; mostri che pure sono tra loro agli antipodi. Il film fa intuire la grande intelligenza, di ciò che sottende, anche perché lascia vedere come non siano tanti diversi i disastri prodotti dai mali di questi due fenomeni, apparentemente così lontani: l’arroganza di un genitore e la mafia.
Straordinaria la giovanissima protagonista Julia Ledlikowska, in una parte difficilissima. Memorabili le parti sul “sogno” e l’amore, di squisita poesia. Il sogno non è quello capitalistico, illusorio e falso: è quello che permette, invece, di evadere da una realtà tremenda, in cui si subiscono rapporti sociali terrificanti. Ciò si vede in famiglia, nel piccolo, come nell’obbedienza ai mafiosi, più in grande, con il corollario di omertà e mancanza di dignità, in cui ricade pure il padre, che pure è una figura in parte apprezzabile, moralmente. Il film mostra anche come infatti non basti essere persone rispettabili, e che magari si impegnano per avere certe qualità, per essere delle brave persone; ci vuole anche molto altro che, se non c’è, impedisce un positivo giudizio complessivo.
Il sogno, per la protagonista, si identifica con l’amore: una pulita, non retorica ma realistica, vicenda amorosa tra due tredicenni. È proprio l’illusione, di cui non si vede il confine con la legittima speranza, che conferisce presente e futuro all’esistenza di due ragazzini disperati per motivi diversi: quest’illusione è fornita dall’amore. La quale è mostrata nella sua valenza psicologica plurima: speranza forse eccessiva (i ragazzi si vedono a vicenda come l’unica cosa che conta nella loro vita; ma per fortuna non c’è un facile finale che faccia vedere come ciò prevalga nonostante tutto); entusiasmo capace di dare senso anche alla peggiori prove; palestra di emozioni, che insegna ciò per cui vale la pena vivere; dipendenza anche patologica (la protagonista ne combina anche troppe, per il suo amato così misteriosamente lontano).
La sceneggiatura è splendida, tratta da un racconto di Mancassola che forse ne ha il merito (ma chi scrive non lo ha letto): i rimandi a emozioni autentiche e profonde sono a getto.
Bellissimo è anche l’affresco dell’amicizia, che la protagonista ha con una ragazza un po’ più grande, bocciata due volte. Quella condivisione di dolori, quella empatia che crea alleanza è descritta in modi commoventi.
Pure la trasgressione dell’adolescente, per cause non dette, silenziosa, ma così ragionevole, così giustificabile di fronte agli orrori e alle menzogne di tanti adulti, è pennellata in modi impeccabili.
Il tema politico è poi valorizzato: splendida è la testimonianza delle due ragazze, che danno volantini in piazza per svegliare le coscienze assuefatte al male, di cui tali coscienza sono complici, nonostante la studiata apparenza, tesa a non farlo risaltare. L’emarginazione sociale, il coraggio nell’affrontare i rischi che erroneamente la società impone a chi è virtuoso, perché non tollera la violenza: tutto ciò rende l’opera di Grassadonia e Piazza al livello della miglior denuncia cinematografica contro la mafia. Notevole è poi il continuo appello alle proprie emozioni: in base a queste non si può stare con quella violenza sistematica, per decenza e per esigenza della proprie felicità più autentica, soprattutto; bisogna avere il coraggio di opporsi ai tradizionali criminali, per quanto potenti siano, accettando tutti i rischi che ciò comporta. In tal senso è meraviglioso l’abbraccio fra la ragazzina e la madre del suo fidanzatino (nonché moglie di fior di mafioso), oramai chiaramente malata di mente per via della sorte del figlio.
Stupenda poi è la collocazione nella natura: così inaspettata in Sicilia, ma non per chi conosce quest’isola nelle mezze stagioni, qui ben più accoglienti che altrove. Ciò è valorizzato dalla meravigliosa fotografia di Bigazzi.
Notevoli i riferimenti, oltre che all’onirico, alla liquidità, che lasciano presagire il destino orribile (storicamente accertato) del protagonista maschile, il ragazzino sciolto nell’acido per non lasciare traccia, dopo oltre due anni di segregazione, per la sola colpa che il padre è un “infame” (cioè un mafioso pentito, come Di Matteo), come dice un alunno a scuola, con una disinvoltura da brividi. Infatti il giudizio negativo lì è per chi collabora con la giustizia, non per chi la devasta. In ossequio ai consueti canoni diseducativi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nel sud Italia, per quanto sempre coperti dal silenzio e dalla tradizione.
A volte pur un po’ lungo e autocompiacentesi, questo film è un pugno nello stomaco. Un drammone ben fatto.
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