Regia di Hugo Haas vedi scheda film
Dare alla memoria, dopo lo shock, tempo e luogo attraverso i quali ricongiungersi con sé stessa e ripristinare un ordine condiviso tra le parti facendole confluire le une nelle altre sino a dare somma uno: Set This House in Order! L'eterno splendore della mente riasse-s/t-tata. La gestione del trauma, in un buon B-Movie made in U.S.A. anni '50.
“Lizzie”, ovvero: lo scheletro semplificato (ma non disincarnato) del romanzo
- pubblicato da Shirley Jackson (1916-1965) nel 1954 col titolo di “the Bird's Nest” (4/5 uova dischiuse, ma un solo nido/mente), dopo “the Lottery and Other Stories” (raccolta di racconti contenente quello, celeberrimo, compreso nel titolo), del 1949, e prima di “the Haunting of Hill House” (1959) e “We Have Always Lived in the Castle (1962) : “Lizzie” (questo è il titolo dell'edizione Adelphi, permutato dalla pellicola) è anch'essa, per prima, come la protagonista, un'opera (gigantesca, meravigliosa, insondabile, ammaliante, stupefacente : il confronto con la pellicola è improbo e ingeneroso) suddivisa in diversi, e più o meno inter-dipendenti / intrecciati e/o compartimentati tra loro, PdV (5, per un totale di 6 parti/capitoli: uno infatti si ripete) appartenenti ai vari soggetti narratori che, di volta in volta, tentano di prendere il controllo della storia brandendo le redini offerte loro dall'autrice e salendo sul predellino del narratore più o meno (in)affidabile -,
un'impalcatura dotata, consuetudinalmente, di talune protesi in aggiunta indipendente o in sostituzione di talaltre parti espunte o modificate rispetto al volume di partenza
[soggetto e linea guida del film diretto - e interpretato in un ruolo non così secondario (il vicino di casa di Elizabeth richmond e zia Morgen) - da Hugo Haas (ottimi qualche dolly e zoom ben serviti ed utilizzati), prodotto da Jerry Bresler per la Bryna di Kirk Douglas (Paths of Glory, Spartacus, the Last SunSet) e distribuito da MGM, sceneggiato da Mel Dinelli (“the Spiral StairCase” di Robert Siodmak), fotografato da Paul Ivano, montato da Leon Barsha e musicato da Leith Stevens, con in più l'apporto di Johnny Mathis che esegue per l'occasione due pezzi (da BillBoard) scritti e composti l'uno da Albert Stillman e Robert Allen e l'altro da Hal David e Burt Bacharach],
condensata/compressa ed espletata in 75 minuti di, pur “sui generis” (in vero, certo, appartenente a - e costituente una - folta e semi-omnicomprensiva schiera che, all'epoca della sua realizzazione, andava a plasmare ed esprimere uno stile ben codificato, canonizzato e maggioritario), rutilante e percussiva progressione...
...inarrestabile, scevra e monda però della (necessaria) ambiguità pervasiva (quel “non” (?!) detto che…) e dell'insorgente poetica jacksoniana: pro e contro, dunque, che danno infine un risultato apprezzabile: nella luce di questo aspetto il finale può d(efin)irsi senz'altro più “compiuto” (e questa è, nel caso specifico, tanto una qualità positiva quanto negativa), e in ciò mette senza dubbio in campo una semplificazione, una normalizzazione e una risoluzione del contesto
- - - e del resto il film, da questo PdV - il suo essere medicalmente e clinicamente quasi nullo -, è già ben rappresentato e (in)disciplinato dai titoli di testa molto didascalici - ma, con un minimo di co(no)sc(i)enza critica applicata, sostenibili - e declinati sul “test” reattivo-proiettivo di psicometria diagnostica percettiva della 10 macchie di Rorschach
- - il quale andrebbe se non altro come minimo affiancato ad un Minnesota Test - per intenderci (in soldoni bucati) : “quello” dei “tre giorni” -, ch'è ben più difficile da rendere e traslare visualmente
-{per altri versi, altrettanto spicci, il film in molti casi utilizza condensandole bene alcune parti del romanzo
-[oltre a togliere una personalità ad Elizabeth (da 4 si passa a 3) ed aggiungere l'esplicitazione di una violenza sessuale subìta dalla protagonista al principio dell'adolescenza, proprio nel giorno della morte della madre (decesso che verrà scoperto solo in seguito al trauma sessuale) : a tal proposito una piccola concessione al più facile (definizione ambivalente) bisogno/richiesta/possibilità di comprensione dello spettatore rispetto al lettore è proprio lo spostamento della festa di compleanno dalla madre alla figlia: l'adulta arriva sì e comunque in ritardo, ubriaca e malmessa alla festa che però non è la sua ma bensì quella della ragazza]- :
le metafore/similitudini del dottor Wright -[è recuperata la bambinesca declinazione strafottente di Beth/Bess verso il medico psicologo/psichiatra, presente nel romanzo, “Dottor Wrong” (l'ho dedotto dal movimento delle labbra…
[ Dal romanzo :
“Mi passi il dottor Wright, per favore. Devo parlare col dottore, è urgente, la prego.”
“Eh?”
“La prego, sono a un telefono pubblico e ho molta fretta. Mi passi il dottor Wright, per cortesia. Gli dica che sono Beth.”
“Chi cerca?”
“Il dottore, la prego. Il dottor Wright.”
“Ha sbagliato numero, signorina.”
“Certo che ho sbagliato numero, pezzo di idiota. Pensa che sono matta?” ]
...e dalla contestualizzazione d'intorno essendo quella da me visionata, come premetto alla...fine del pezzo, una copia doppiata) : nel film è “solo” divertente, nel romanzo è reiterata più volte e serve a estremizzare l'ottima caratterizzazione dei personaggi: Bess/Beth ci gioca e il dottore se ne risente]- sulle fognature (la cui giustificazione occupa due pagine in Jackson), ad esempio, vengono trasformate su schermo in questa perfetta battuta della zia Morgen: «“Intoppo”: sembra uno stagnaro!»}-,
e che dovrebbe(ro) restare e rimanere, comunque, invalido(-i) e non convalidanti se non “scientificamente” almeno per quanto riguarda l'esercizio dei poteri esecutivo-giudiziari - -,
anche se in questo caso è messo ad indicare, più banalmente, forzandone e sballandone la natura ed il senso, lo sdoppiamento della/e personalità), ovvero un piccolo totem delle chiacchiere da bar e bottega dello spettacolo, scalzato da e secondo solo a calcio (o cuochi), vagina (o soldi) e politica (o “talent”), e tra l'altro c'entrando con tutt'e tre - - -
che rendono più agevole l'accettazione del dramma in atto (per contro, le parti di docile commedia in alcun senso contrastano discordando col tragico di fondo ma entrano in utile risonanza con esso conferendo al tutto una sorta di “placida” restituzione della realtà/verità, pur con tutti i limiti del caso già individuati, indicati ed espressi, e inoltre non esauriscono lì il loro discorso ma dialogano bene col resto, cioè la parte predominante dell'opera), appoggiandosi al mainstream (spiattellamento e spiegone) della retorica (imponendo una sorta di grossolana elicitazione delle cause del male sofferto dalla protagonista), ma pure al contempo riesce a penetrare altrettanto nel profondo - (per)seguendo altre vie d'accesso, più facili e dirette ma non per questo meno vere e significanti -, e a tal proposito valga e basti la scena, estremamente disturbante, di Robin che taglia, afferra, porta alla bocca, addenta, mastica e ingoia la fetta della torta di compleanno di Elizabeth.
«Finì il caffè e rimise la tazza sul piattino proprio come facevano tutti gli altri, scese dallo sgabello, prese la borsetta e la valigia e si recò alla biglietteria. Davanti a lei una donna stava dicendo all'impiegato: “New York, sola andata, per favore”, e siccome l'impiegato non alzò la testa e non si mise a ridere Betsy dedusse che questo fosse il modo abituale di chiedere il biglietto. Avvertì un senso di grato appagamento nei confronti del bigliettaio e della donna davanti a lei e dell'uomo del bar e del tassista e di tutto quel mondo totalmente insolito; “New York, sola andata, per favore”, disse, attenta a utilizzare l'inflessione giusta, e l'impiegato non alzò la testa e nemmeno sorrise, limitandosi a darle il resto con aria annoiata. “Tra quanto parte il pullman?”, gli domandò baldanzosa, e il bigliettaio diede un'occhiata all'orologio e le disse, senza fare una piega: “Dodici minuti, porta laterale”.»
Per finire - mentre il cambiamento più marcato dal romanzo al film si può senz'altro individuare (ovviamente dal PdV del mero plot) nell'inserimento del vicino di casa della zia, un personaggio (interpretato dal regista Hugo Haas) creato e inventato da zero per normalizzare e rendere più comoda, elementare ed agevole l'implementazione di alcune svolte narrative, ma che non stona affatto nell'insieme – ecco ancor'altre più o meno importanti e significative divergenze: oltre alla statua d'ebano nigeriana, presenza fisico-fantasmatica nelle pagine scritte d'altrettanto nero inchiostro e solo suppellettile di contorno sulla superficie al nitrato d'argento della pellicola, e alla figura del custode-tuttofare messicano/italiano del museo dove è impiegata Elizabeth che prende il posto del giovane, gentile dottore incontrato da Beth/Bess a New York, ecco, in penultimo non ultimo: il fango, che dal frigorifero passa al vestito; e il ritorno più espressivo/espressionista dell'edificio museale: nel finale del romanzo il calpestare ancora quelle stanze e quelle aule, quei saloni e quei corridoi (che nelle prime pagine invece assurgono a vero e proprio personaggio, con una forza icastica e un'incisività pittorica indimenticabili) è reso più come una - comunque sottilmente disturbante - visita di cortesia, mentre nella pellicola quelle scenografie vengono ri-utilizzate come substrato, contesto ed argomentazione del dare alla memoria, dopo la suppurazione e l'epurazione del trauma, un proprio luogo in cui ricongiungersi con sé stessa, ristabilirsi e ristabilire un ordine condiviso tra le parti, confluent'in fine le une nelle altre a dare somma uno: Set This House in Order! L'eterno splendore della mente riasse-s/t-tata.
Ottimi tutti gli interpeti: la...muliebre, bellissima e...in parte Eleanor Parker (Detective Story, Scaramouche, Escape from Fort Bravo, Interrupted Melody, the Man with the Golden Arm, a Hole in the Head, Home from the Hill, the Sound of Music, il Tigre); la rimarcabilmente topica maschera da consolante americano medio (una via di mezzo tra un medico di base e d uno specialista) calzata a pennello da Richard Boone; la fenomenale e variegata caratterizzazione di Joan Blondell (the Public Enemy, FootLight Parade, a Tree Grows in Brooklyn, the Blue Veil, Opening Night). Completano il cast: Hugo Haas, il regista, che come già ricordato qui veste anche i panni del vicino di casa; Ric Roman, l'italo-americano (o messicano che doppiar si voglia) amante di Lizzie-Beth-Bess; Dorothy Arnold, la madre di Lizzie e la sorella di Morgen; John Reach, la Causa del Male, l'amante della madre di Lizzie, Robin; e infine Johnny Mathis, con due performance già segnalate, e Marion Ross (la futura Mrs. Cunningham), qui agli inizi di carriera.
“È perché...” - balbettò Elizabeth, accarezzando piano l'acqua con la mano - “...perché lui, il dottore mi ha spiegato che quando sarò guarita torneremo tutte insieme, io, Betsy e Beth eccetera. Ha detto che sono una di loro. Cioè io non sono io, sono solo una come quelle là. Ha spiegato che ci rimetterà tutte insieme e che saremo una persona sola”.
“E allora?”. Era giusto che Elizabeth ragionasse su queste cose , che se ne preoccupasse? Per quanto fosse esitante e impacciata nel parlarne, era giusto permetterle di proseguire? “Perché non aspettiamo di vedere cosa succede?”, suggerì Morgen, ispirata.
“Senti”. Elizabeth si girò a guardarla. “Io sono solo una di loro, sono solo una parte. Io penso e sento e parlo e cammino e guardo e ascolto e mangio e faccio il bagno...”.
“D'accordo”, disse Morgen. “Fai queste e tante altre cose ancora, e che c'è di male? Le faccio anch'io”.
“Ma io faccio tutto con la mia testa”. Elizabeth parlò molto lentamente, come tastando il terreno. “Quello che il dottor Wright otterrà al termine della sua terapia sarà una nuova Elizabeth Richmond, con la sua mente. Lei penserà e mangerà e ascolterà e camminerà e farà il bagno. Non io. Forse sarò una parte di lei, ma io questo non lo saprò: lo saprà lei”.
“Non capisco”, disse Morgen.
“ Be'”, disse Elizabeth, “quando sarà lei a pensare e a sapere tutto, io non sarò...morta?”.
“Lizzie” è, …“ovviamente”..., la storia di un triplice suicidio/omicidio, e di una rinascita.
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• Note.
Una delle migliori trasformazioni sullo schermo cinematografico degli ultimi anni rimane ancora quella presente in “Lost HighWay” di David Lynch del 1996: è, però, attenzione, una trasformazione in questo caso del tutto consapevole (una situazione dicotomica rispetto a quella di “Mulholland Drive” del 2001, quindi), non c'entrano le doppie o multiple personalità, e non certo di “opportunità”, ma di estrema, sopravvivente (cioè che permette la sopravvivenza di chi mette in scena la sciarada) finzione diegetica, si tratta: è il personaggio interpretato da Patricia Arquette che finge di mutare atteggiamento, che si disvela indossando una maschera (di salvezza).
La scena è inserita qui di seguito, e cliccando “play” l'AudioVideo di YouTube, pre-impostato, si aprirà già al momento clou (il passaggio, la transizione tra le identità).
https://youtu.be/VVHEGlaAMxw?t=1m43s
“Non è dimostrato che il suo equilibrio personale venisse alterato dalla pendenza del pavimento, né si poté dimostrare che fosse stata lei a svellere il palazzo dalle fondamenta; è innegabile tuttavia che l'uno e l'altro cominciarono a smottare all'incirca nello stesso periodo.”
• MultiMedialità.
Ecco il film [ * * * ¾ ] :
Versione con doppiaggio italiano (sufficiente) e hard-sub (traduzione dei testi delle due canzoni) in ceco-slovacco. Video discreto [480p (640x480) - 315 MB] e audio scarso.
https://www.youtube.com/watch?v=95aclS1x1tQ
Ed ecco il libro:
Libri a(ni)mati / 14 : “the Bird's Nest” di Shirley Jackson (1954) : fare a pugni con le ombre.
“Elizabeth Richmond, ventitré anni, non aveva amici, né genitori, né conoscenti, e nessun progetto che non fosse sopportare l’ineludibile intervallo antecedente la sua dipartita stando il meno male possibile.”
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