Regia di Sam Garbarski vedi scheda film
L’arte di arrangiarsi apre mille porte, soprattutto quando si parla di presentarsi e vendere un prodotto. Alla lunga emerge il resto, ma saper raccontare una storia è l’abbrivio indispensabile per dare il là a ogni avventura, nel commercio così come in tante altre situazioni.
Talvolta, saperci fare con le parole permette di imbrogliare e arrivare al successo con passo spedito, bruciando le tappe. Come contrappasso, in altri casi raccontare la verità può non essere sufficiente per convincere l’interlocutore di turno, tanto più quando si parla di faccende dai connotati promiscui.
Bye bye Germany mette insieme queste situazioni in un contesto storico tremendamente complicato, senza minimamente soppesare la materia nel suo complesso.
Francoforte,1946. Sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, c’è chi prova a ripartire, anche solo per guadagnare la cifra sufficiente per trasferirsi negli Stati Uniti e voltare definitivamente pagina.
Così, l’ebreo David Bermann (Moritz Bleibtreu) apre un’attività commerciale insieme ad altri amici, tra cui Holzmann (Mark Ivanir), ma deve al contempo fronteggiare l’arringa dell’agente militare Sara Simon (Antje Traue), che lo accusa di aver collaborato con i nazisti. Mentre prova in tutti i modi a scagionarsi, David continua il suo business, senza guardare in faccia a nessuno.
I paradossi sono un materiale pericoloso da maneggiare: se non presti la massima attenzione, ti tornano indietro come un boomerang, per giunta al doppio della velocità.
È esattamente quello che succede in questo film diretto da Sam Garbarski, che prova a ripetere il tocco magico riuscitogli in Irina Palm. Il talento di una donna inglese, ossia affrontare un tema ispido con spirito garibaldino.
Purtroppo, all’eloquenza del protagonista non corrisponde quella del film, che ha numerose frecce al suo arco, sparate a casaccio, confuso tra i tanti bersagli che ha a disposizione. Nella fattispecie, la storia narrata ha tutto quel che serve per strappare risate e lacrime in maniera indiscriminata, incuneandosi in una formula accomodata che, tra La vita è bella e Train de vie, ha orde di precursori, per addentrarsi nei peggiori traumi rilasciati della Seconda Guerra Mondiale, nelle contraddizioni della ripartenza e nella speranza di un nuovo inizio.
Questo solco di comodo diviene un imbuto, dove confluiscono due tempi d’azione, determinando uno svolgimento estremamente dinamico ma anche disattento e di conseguenza fin troppo impreciso. In pratica, assistiamo a un bombardamento indiscriminato, che vanifica buona parte delle potenzialità insite nello script, con tempi di montaggio arruffati, salti temporali che tagliano ripetutamente le gambe e soluzioni piovute dal cielo, come una fastidiosa doppia love story, una chiara da subito, un’altra che giunge dal nulla (quella che vede protagonista Holzmann).
Per quanto detto, Bye bye Germany non può che finire nel dimenticatoio, reo di aver sprecato l’attitudine anti manichea di Moritz Bleibtreu e la bellezza statuaria di Antje Traue in una mistura squilibrata, con un accavallamento di materiale che crea principalmente spifferi, nonostante le premesse avessero tutto il necessario - gli ebrei rimasti in Germania dopo la fine della guerra, gli imbrogli quotidiani, i dubbi e il ricorso a una vicenda clamorosa che tirava in mezzo lo stesso Hitler – per creare uno spartito valido per tutti i palati.
Sbiadito e confusionario.
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