Regia di Robin Campillo vedi scheda film
Avevo circa 15 anni ed erano gli inizi degli anni '90 quando mi recai, come tante altre volte in vita, nello studio del mio medico per curare una banale influenza. Ero seduto sulla poltroncina bianca e ruvida, in attesa del mio turno, quando entrarono nella saletta un uomo, il figlio di pochi mesi e la moglie straniera. Lo ricordo come fosse ieri. L'uomo stava male ed era avvolto nel piumino, e se la mia temperatura era alta la sua lo divorava. La pelle lucida e bluastra e i capillari scoppiati nelle gote mi impedivano di attribuirgli un'età. La moglie e il figlio mi suggerivano una giovinezza di cui tuttavia non v'era più traccia nelle ossa sottili, nella pelle spessa quanto carta di riso e nei capelli spenti e ingrigiti. Ricordo che le mie timorose elucubrazioni vennero interrotte dalla richiesta, pronunciata da lei con forte accento dell'Est, di avere il permesso per entrare dal medico col marito malconcio. Ricordo il breve conciliabolo con mia madre che acconsentì a farli passare senza indugio mettendo fine alle schermaglie con i quattro vecchi impettiti che non si sarebbero arresi all'oltraggio della situazione finché qualcuno gli avesse dato man forte. Ricordo che una volta solcato l'uscio dell'ambulatorio mi acquietai un poco perché era davvero insostenibile la vista della malattia e avrei preferito, senza dubbio, andare a scuola quella mattina d'inverno piuttosto che vedere quel neonato piagnucolante e suo padre ammalato. Fu quello il mio primo (e fortunatamente unico) contatto consapevole con l'Aids. In precedenza ricordo i particolari confusi di alcune chiacchere tra mamme su quella nuova malattia che proveniva dalle scimmie africane. Quelle chiacchere mi procurarono un misto d'ansia e curiosità ma mia mamma fu pronta a rassicurarmi dicendomi che un bambino di quinta elementare non l'avrebbe mai presa. Quel giorno invece si materializzarono alle mie orecchie le chiacchere che suggerivano già da tempo la presenza del virus in paese, e le occhiate scambiate dai vecchi, che avrebbero voluto alzare i tacchi e scappare ma anche preservare il loro diritto di precedenza, confermarono che quell'uomo faceva parte della compagnia di amici rovinata dalla droga di cui tanto si vociferava. Quell'uomo dall'età indefinita ma che, più tardi, scoprii essere quella di un giovane adulto poco più grande di me se ne andò dopo poco insieme al figlioletto. Infine se ne andò la giovane donna che quel giorno in ambulatorio inveí contro la propria sorte. Quindi morirono gli amici di lui, quelli che gli erano sopravvissuti.
Risuonano ancora le parole pronunciate dalla mia prof di Italiano di quinta superiore qualche anno più avanti. Diceva che si sarebbe sentita più tranquilla se il figlio fosse stato gay perché il macello dell'AIDS ormai faceva più danni tra gli eterosessuali che si consideravano immuni al contagio. L'HIV era roba da "froci e drogati" si diceva nel 1994 ma la mia professoressa aveva l'occhio lungo e una discreta esperienza per non farsi abbindolare da falsi slogan. Gli omosessuali sopravvissuti alla peste del secolo avevano imparato la lezione ben prima degli altri e avevano capito come difendersi dal contagio. In quegli anni a combattere contro i falsi proclami, contro le reticenze e la mancanza di educazione sessuale c'era un'associazione di attivisti chiamata Act Up, nata a New York, guarda caso, nel mondo gay. Fu Act Up a proporsi come scopo quello di interagire con il sistema per attirare maggiori attenzioni intorno al problema dell'AIDS che negli anni '80 sembrava essere una piaga tipicamente omosessuale. Act Up ha avuto svariate sedi. Lungi dall'Italia, per carità, troppo provinciale e cliericale. Robin Campillo ha raccontato in "120 battiti al minuto", film in parte autobiografico, l'esperienza degli attivisti di Act Up Paris che chiedevano maggior attenzione sul flagello HIV da parte dei governanti francesi all'inizio di quegli anni '90 che portarono il virus tra le campagne del mio paesello di provincia. Come le associazioni americane, che a volte superarono il limite del consentito, anche gli attivisti francesi non esitarono ad esporsi con azioni dimostrative al limite della legalità per ottenere qualche risultato che facesse sperare i malati e diminuire i contagi. Ma la mentalità era conservatrice ed intransigente per cui gli attivisti spesso dovettero raffrontarsi con un impenetrabile muro di gomma. Quello che fece rimbalzare via ogni tentativo di Act Up di istruire una scuola occupata allo scopo di richiamare l'attenzione degli studenti su una sessualità responsabile e sicura a prescindere dalle preferenze di genere, per fare un semplice esempio. Quel "non sono lesbica" di una liceale indignata ha risvegliato in me il ricordo dei pregiudizi che animavano il dibattito in Italia sulla corretta profilassi anti-contagio che solo l'iniziativa personale di alcuni bravi insegnanti trovava dignità in assenza di un vero e proprio programma educativo d'istituto.
Sento un po' di nostalgia per quei rari momenti di dibattito intorno a questo e altri temi, preziosi attimi rubati alle lezioni da insegnanti disposti a rinunciare ad un canto dantesco per un'ora di civica educazione. Ricordo quei momenti eccitanti di confronto di cui resta un timido alone in un web sopraffatto dai colpi lapidari di incontestabili verità autoproclamate.
Non sembra esserci più il confronto dialettico di allora che Robin Campillo evoca con entusiasmo "contagioso" tra i ragazzi impegnati a discutere l'ordine del giorno in un'aula magna gremita. Ci sono giovani donne e uomini gay, transgender prostitute, un timido ragazzino emofiliaco e sua madre che lotta per garantirgli un futuro. Sono tutti accomunati dalla sieropositività e su di loro pende una spada che si abbassa sulla nuca con la costanza con cui i granelli di sabbia di una clessidra sono catturati dalla gravità.
Tra di loro il regista segue Sean e Nathan che emergono pian piano dal democratico anonimato del dibattito in aula e dalle urla degli slogan di piazza colorati dal rosso colore del finto sangue che imbratta muri e separé di vetro di una casa farmaceutica. Sean è malato mentre Nathan non è nemmeno positivo ma l'amore è in agguato, con i suo dardi fiammeggianti, al pari della morte che brandisce la falce. Delicatamente Campillo li estrapola dal contesto della "guerriglia" ideologica per calarli in un privato di confidenze e sentimenti condivisi che diventa via via sempre più centrale.
Il regista francese racconta la vita pubblica dei militi di Act Up, ci racconta le loro paure, ci lascia a bocca aperta per la loro preparazione in materia di Aids, ci sbatte in faccia lunghe liste di medicinali e barattolini arancioni pieni di pillole ma, gradualmente, spoglia la storia di ogni tecnicismo rivestendola di momenti conviviali, ansie, tenerezza, fino all'approdo della nave al proprio ineluttabile destino. Il regista francese tiene ben stretto il timone senza eccessi drammatici che rischierebbero di far affondare la nave a pochi metri dal molo in una seconda parte meno prolissa e più intima. Per quella nostalgia di cui parlavo in precedenza ho amato soprattutto la prima parte con i dibattiti in aula. Campillo ha reso alla perfezione l'eccitante sensazione di chi partecipò pienamente a quella stagione di impegno civile, slogan, richieste urlate ad alta voce. Credo che per molti l'attivismo politico e le battaglie furono il modo di tramutare la personale tragedia della sieropositività o della malattia nella forza per alzarsi il mattino e prendere quel cocktail di farmaci che avrebbe allungato ancora un po' le aspettative di vita. Campillo immerge i propri ideali civili in un'aurea di immortalità ma non si limita a ricreare un'epoca tormentata ma ricca. Campillo non fa puro cinema di denuncia civile e non solo perché ibridato dal genere dramedy. Campillo gioca col cinema. I corpi ballano in discoteca al rumore assordante dalla musica disco. Le luci ritmate colpiscono a fasci i visi, le mani, i volti appoggiati gli uni agli altri. Granelli di polvere sottile danzano tra i corpi nella pista da ballo crescendo come se quelle luci ne alimentassero il loro microscopico essere. Quei filamenti illuminati dal blu, dal viola, dal giallo degli stroboscopi assumono lentamente forma sferica ornata da propaggini di glicoproteine. Il virus è ovunque, spetta a noi sbattergli la porta nel muso con la stessa forza e la stessa grinta che molti giovani malati di inizio anni '90 misero sul campo per farci vivere meglio. Balliamo, allora, la vita con le loro braccia, con le loro braccia, con il loro entusiasmo a 120 battiti al minuto.
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