Regia di Brian Taylor vedi scheda film
Adottare l'adozione contro l'estinzione.
Nicolas Cage: the Bliss of Evil.
Ovvero [a parte i capolavori di inizio carriera...
- 1986: “Peggy Sue Got Married” di Francis Ford Coppola
- 1987: “Arizona Junior” di Joel & Ethan Coen
- 1990: “Wild at Heart” di David Lynch (da Barry Gifford)
- 1998: “Snake Eyes” di Brian De Palma
- 1999: “Bringing Out the Dead” di Martin Scorsese (da Paul Schrader)
...e quelli del mezzo del cammin di sua vita...
- 2002: “Adaptation.” di Spike Jonze (da Susan Orlean e Charlie Kaufman)
- 2009: “Bad Lieutenant - Port of Call: New Orleans” di Werner Herzog (da Abel Ferrara, Zoë Lund e Victor Argo)
- 2010: “Kick-Ass” di Matthew Vaughn
- 2013: “Joe” di David Gordon Green
...ecco]: la parte da salvare del “Che s'ha da fa' pe' campà!”:
- 2016: “Dog Eat Dog” di Paul Schrader
- 2017: “Mom and Dad” di Brian Taylor
- 2018: “Mandy” di Panos Cosmatos
- 2019: “Color Out of Space” di Richard Stanley (da H.P. Lovecraft)
Dopo i colorizzati titoli di testa seventies, bellissimi e sinceri, realizzati in split screen e freeze frame, che scorrono sulle note e le parole di “Yesterday When I Was Young” di Roy Clark nella versione di Dusty Springfield, un'occhiata dal PdV di Dio ci porta a LouisVille, Kentucky (ma potrebbe essere benissimo una qualsiasi periferia della east-coast, del middle-west o della west-coast, tipo l'Agrestic, California di “Weeds”, con le “Little Boxes” cantate da Malvina Reynolds per introdurre il quartiere residenziale co-protagonista delle prime stagioni, oppure le lynchane Lumberton, North Carolina, di “Blue Velvet” e la Las Vegas, Nevada, di “Twin Peaks - 3: the Return”), in cui si svolge la storia raccontata da “Mom and Dad”, opera 6ª di Brian Taylor [comprese quelle - in pratica tutte, tranne la serie “Happy!” e il presente film - girate e scritte in coppia con Mark Neveldine (i rutilantemente mesti "Crank", "Crank: High Voltage" e "Gamer"), mentre di “Ghost Rider: Spirit of Vengeance” - ultimo progetto ad ora realizzato insieme - hanno curato solo la regìa], che qui scrive e dirige in assolo, mettendo in scena quel ch'è in pratica l'opposto ribaltato cinematografico del densissimo letterario “the Flame Alphabet” di Ben Marcus, tanto superbo quanto ostico (in cui sono i figli a portare alla morte i genitori per sfinimento e debilitazione da vocaboli, locuzioni, termini, frasi, parole, lemmi e proposizioni intossicanti), e un sottoinsieme relativo alla romanzesca pentalogica serie “Hater” di David Moody, innestandolo con piccoli frammenti di spezzoni inframediali e diegetici ben inseriti ed utilizzati (su tutti, l'intervista a caldo trasmessa in diretta da un canale all news ad un fresco figlicida; mentre mero espediente stiracchiato è il rumore bianco delle scariche di elettricità statica infettante alla Stephen King di "Cell"). Abbastanza angosciante, anche se non impeccabile, la scena del (post)parto.
Nicolas Cage (nella parte di Sailor Ripley da vecchio, e con un lampantement'evidente flash-back in body-double giovanile direttamente da “Wild at Heart”) e Selma Blair (bellissima, e non che oggi rapata a zero e con bastone da passeggio non sia altro che splendida) sono perfetti (ad esempio la scena fra i due col "metaforico" tavolo da biliardo in mezzo). Anna Winters può migliorare. Il piccolo Zackary Arthur di “Transparent” è bravino. Lance Henriksen, in un breve ma furioso cameo (probabilmente la sua parte più importante da 10-25 anni: “Dead Man” è del '95, “Appaloosa” del '98 e “Cypher” del '10), spacca. Il ritaglio col Dr. Oz potrebbe rovinare tutto e quasi ci riesce, ma poi arriva la nonnina a volare sopra al tettuccio sfondato dell'auto e tu pensi che potresti sopportare pure gli esami prostatici di Luciano Onder e Michele Mirabella.
Fotografia: Daniel Pearl. Montaggio: Rose Corr e Fernando Villena. Musiche: Mr. Bill (James Day). Brano terminale, tra il taglio netto (il finale - tronco/monco, à la “the Sopranos” - è veramente azzeccato) e i titoli di coda: lo zarro-tamarrissimo “Even Still” di FalseHead.
* * * (¼) ½
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