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Corpo e anima

Regia di Ildiko Enyedi vedi scheda film

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La recensione su Corpo e anima

di MarioC
8 stelle

Piccoli film crescono. Rifiutano la spettacolarizzazione dei sentimenti, propongono spartiti di ego devastati, sceneggiano doppi binari di lettura che infine si fondono mirabilmente in una lodevole unicità. Corpo e anima è la interazione poetica tra un sogno (più sogni, meglio: favolisticamente uguali) e la realtà che di quel sogno (di quei sogni) si fa terreno di coltura. La danza tra anime animali (nel senso della spiazzante e selvaggia solitudine, della rinuncia al calore degli abbracci che non rispondano ad un naturale ed istintivo dover essere, animale per definizione) e corpi di uomini e donne che si sfiorano, si attraggono e respingono, infine si amano, come nel finale di una partita a scacchi che non contempla vincitori ma soltanto sospettosi sodali. Lui direttore di un mattatoio (persona di strana ed irsuta tenerezza, a dispetto di quel lavoro così impastato di sangue e senso della fine), lei ispettore addetto al controllo qualità (bella di quella bellezza severa che si dà regole e ad esse soggiace – interrogata sul perché assegni sempre l’attestato di qualità b alla carne, Maria risponde che la normativa me lo impone e la normativa è sempre stata la mia linea di comportamento, appunto-ansiosa di quell’ansia che non metabolizza i traumi, disperata di quella disperazione che avvince chi è costretto ai dettami di una socialità che non vorrebbe). Un breve incontro che, come nel film di Lean, registra tappe di avvicinamento e smottamenti della ragione ma che, diversamente da quella pellicola e da molte altre sul tema, squaderna tutte le difficoltà di pervenire a ciò che si vorrebbe, tra inganni a se stessi (la donna è attratta eppure continua nella sua recita dell’intangibilità, fedele a quel viluppo di codici che si è data, l’uomo forse si ritiene troppo vecchio per amare e poco incline ai giochi che un amore nascente, da far nascere, impone), paure (del contatto fisico, dell’abbandono, del futuro), sogni (che pure sono gli stessi, notturni e ad occhi aperti).

 

 

L’onirismo è il reale elemento di novità del film. La metafora dei cervi che compaiono in sogno ai due protagonisti (nello stesso sogno, anzi, con i medesimi movimenti e spostamenti, i medesimi avvicinamenti, il bere alla stessa fonte come due innamorati dovrebbero poter e saper fare) introduce l’ardito accostamento sopra accennato tra uomo e animale. Accostamento ribadito e rafforzato dalle cruente immagini dal mattatoio, quinta teatrale sulla quale, benché ci sia risparmiata la violenza della morte, si srotola il dolore della vita, la predestinazione alla fine (negli occhi dell’animale in gabbia è facile leggere l’asfissia di un sentimento, umano questa volta, che non sa quale strada prendere, quale via d’uscita imboccare, casomai ce ne fosse una). E poi uomini e donne che coltivano il silenzio, l’assenza animale di parole (Maria riproduce con Lego o oggetti domestici gli scarni e formali dialoghi con Endre, rischiando l’assoluto delle parole non dette, che non ha avuto il coraggio di dire e che infine dirà, in modi e momenti del tutto incongrui), monadi di forza stanca e consapevole rassegnazione, faticosamente striscianti (come animali che vanno, si avviano al macello, e l’amore ha molto di straziante, sferza le carni, può farle sanguinare) verso un orizzonte di beatitudine lontana. Corpo e anima è film sensuale, laddove lascia intendere che i due si annusino, si guardino e scrutino, infine si tocchino dopo mille tentativi abortiti (il primo modesto approccio di Endre si rivela un fallimento, durante una serata in cui, abolito il tatto, resta però l’udito, nelle storie minime e insignificanti che i due si erano scambiati con la speranza e la voglia di addormentarsi insieme e di (ri)fare quello stesso sogno, in cui riversare un latente erotismo). È film dolce e ruvido, che ha il coraggio di avvicinarsi a due solitudini senza giudicarle, lasciandole anzi parlare e parlarsi. Alla fine, il sogno dei cervi si stempera in dissolvenza, la confessione finale (anche un po’ triste e solitaria, parafrasando Soriano) di quell’amore fino ad allora rimasto allo stato di tentativo rimette al centro l’uomo e la donna, il loro mondo complesso e, finalmente, parlante, palpante, battente. Confessione finale che, peraltro, interrompe, letteralmente, un flusso di sangue, l’automattanza di chi si ritiene incapace ormai di sottostare alla propria infelicità, pur così coscienziosamente perseguita. Via il rosso, rimane l’ultima dissolvenza nel bianco: come la neve, come la purezza di una ripartenza. Via anche il sogno, c’è da credere: non resta che la vita, lo sporcarsi con i suoi mille colori.

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