Regia di Daniele Misischia vedi scheda film
Piacevole horror italiano che riporta sugli schermi un tipo di cinema troppo a lungo trascurato. Pur tra qualche ingenuità, il regista riesce a comporre un lungometraggio angosciante, tanto quanto visivamente affascinante.
Roma. Il dottor Claudio Verona (Alessandro Roja) ricopre un ruolo di rilevo nell'azienda in cui lavora. Sempre di corsa, si affretta per un importante appuntamento ma sembra che tutto vada contro il tempo: le vie della città sono -per quanto possibile- insolitamente più affollate del solito e la frenesia sulle strade sembra motivata, stando alle frammentarie notizie in arrivo dalla radio, da un blackout, forse da un incidente, nel dubbio anche d'un attentato. La giornata prosegue sempre peggio quando, incrociata una amante che lavora nello stesso stabile, tenta di avere una veloce relazione sessuale in ascensore. Prima viene bruscamente interrotto dalla donna, poi -rimasto solo nell'elevatore- un guasto lo costringe a chiamare la segretaria per annunciare che tarderà, suo malgrado, ulteriormente l'incontro. L'appuntamento però diventa presto l'ultima delle sue preoccupazioni, quando si rende conto che un virus dagli effetti inattesi, ha trasformato le persone in pericolosi aggressori. Fuori dal palazzo, le cose sembrano essere ancora più disastrose.
"Hai sentito che casino che è successo?" (Lorena, al telefono con il marito Claudio)
Ormai sono rimasti solo loro, i fratelli Manetti (qui con il contributo della Regione Lazio ed il supporto Rai cinema) a credere nelle capacità dei giovani registi italiani intenzionati a percorrere generi cinematografici che non siano la solita commedia o il dramma. Impegnati anche in primo piano dietro la macchina da presa, nel tentativo di riportare sugli schermi i diversi "generi" (Zora esclusa, dai tempi del bel Piano 17, ovvero il 2005 e del reverenziale e interessante Paura) hanno appoggiato autori originali, supportandoli in opere coraggiose e dal respiro internazionale, tipo Il bosco fuori (Gabriele Albanesi) o questo stravagante The end?
Film, diciamolo subito per liberarci dell'aspetto meno interessante, poco originale per via della sceneggiatura: già nel 1963 Ubaldo Ragona, con L'ultimo uomo della Terra, ci mette davanti al contesto di un unico (leggendario) superstite barricato in casa, perché assediato da pericolose creature. Concetto poi ripreso nel 1968, nell'epocale La notte dei morti viventi, dove Romero amplia il numero dei sopravvissuti e mette in scena un contesto da fine del Mondo, sostituendo ai più romantici vampiri, dei ritornanti. Meglio chiamarli con il loro nome e cognome, "Morti Viventi", con il quale sono ben più noti: e già all'ora -pur tra lambiccate e cervellotiche declinazioni politiche intraviste dalla critica, ma non inserite da Romero- era difficile dire (e dare) un senso, un perché all'apocalittica reviviscenza. All'epoca un vago accenno al rientro di una satellite dallo spazio dava conto, in maniera piuttosto confusa, dell'epidemia considerata concausa di un numero tale di decessi per cui i corpi dei morenti avrebbero occupato (tutto) il posto dell'Inferno, obbligando i morti a camminare sulla Terra. Dopo cinquanta anni (e centinaia, migliaia, di inutili cloni) siamo sempre da quelle parti, con una spruzzatina da La città verrà distrutta all'alba (sempre del lungimirante regista di Pittsburgh). Misischia, anche sceneggiatore, dimostra di avere però appreso molto bene i meccanismi del filone, e riesce a dare il meglio proprio nelle sequenze debitrici a titoli di culto, tipo gli stupendi dieci minuti conclusivi, con riprese aeree (via drone) su una Roma a ferro e fuoco, accostabili -per senso di catastrofica epidemia- alla Londra di 28 giorni dopo. Eccoci così liberati dell'aspetto più banale di The end?, inevitabilmente circoscritto ai modelli di riferimento (ovviamente tra tutti aleggia, anche e soprattutto, il condominio di Demoni 2 di Lamberto Bava). Tolto questo sassolino dalla scarpa, è quasi sorprendente il coraggio che ha mosso Misischia (e i Manetti Bros con lui) che riesce con buon esito (tecnico, di interpretazioni, per messa in scena e colonna sonora) a riportarci indietro negli anni, realizzando un horror puro, di confezione internazionale (ovvero esportabile) e in grado di valorizzare soprattutto l'aspetto puramente estetico. Con una bella e curata fotografia, dai toni freddi (con predominanti blu e azzurro), Misischia riesce a superare lo striminzito soggetto e a rendere vivaci cento minuti con il protagonista rinchiuso in un ascensore per quasi tutta la durata del film. Questo è un risultato non da poco, che può solo essere lodato, supportato ed acclamato anche perché sorto nel panorama produttivo (italiano) asfittico, ripetitivo, e spesso imbarazzante, della sola e onnipresente noiosa e convenzionale commedia para televisiva. Chapeau anche per Rai cinema, che ha saputo puntare (credendoci giustamente) ad un genere solitamente poco gradito ai vertici dirigenziali dei canali di Stato.
Roma come New York
L'enorme palazzo aziendale in cui lavora Claudio, spesso ripreso in campo lungo, e l'incipit con le strade della città affollate da persone in corsa frenetica, nonché lo stato ansioso del protagonista, sembrano specchio della più caotica e ricca Grande Mela. L'accostamento è inevitabile, soprattutto quando aleggia nell'aria il sospetto di un attentato terroristico.
Curiosità
Un omaggio chiaro ed evidente, Misischia lo depone chiaramente nei confronti del maestro Argento: nel finale, dopo aver fracassato il cranio ad una ritornante (senza gambe), Claudio si riflette in una pozza di sangue, proprio come accade a David Hemmings nel capolavoro del giallo italiano, Profondo rosso.
La voce del manutentore dell'ascensore, per lungo tratto di tempo in contatto con il protagonista imprigionato, è quella di uno dei due fratelli Manetti (Marco).
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