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L'altro volto della speranza

Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film

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La recensione su L'altro volto della speranza

di ed wood
6 stelle

Un Kaurismaki sottotono a questo giro. “L’altro volto della speranza” (titolo italiano orrendo) è una sorta di cine-replicante, un veicolo che viaggia col pilota automatico e con la benzina avanzata dalle splendide opere precedenti del cineasta finlandese. Un’estetica fin troppo collaudata, che mescola humour laconico ed asciutta pietas, scenografie colorate e illuminate da luce fioca e intermezzi musicali a base di folk-blues-rock autoctono, oggettistica retrò e brutture del mondo moderno, in equilibro precario fra ingenuità e consapevolezza. Più: il solito ghiacciato cameo di Kati Outinen.

 

La ricetta avrebbe avuto bisogno o di una conferma ad un livello sublime di ispirazione (i grandi autori sanno come non annoiare, pur ripetendo se stessi) o di un ampliamento tematico. Qui non c’è ne l’una né l’altra cosa. Da un lato, infatti, il film è poco ispirato, fragile nella costruzione, debole negli snodi narrativi e psicologici, insolitamente sfilacciato, non privo di passaggi a vuoto: uno smarrimento che si riflette in un finale deludente. Dall’altro, l’aggancio all’attualità dei rifugiati e della guerra in Siria si rivela un mero pretesto: il povero Khaled non è altro che una riedizione degli emarginati che da sempre popolano, chaplinianamente, l’intera filmografia di Kaurismaki.

 

L’emarginazione in Kaurismaki è uno stato della mente, prima che una condizione storica o sociale. Khaled troverà un alleato nella figura ideologicamente a lui più lontana: un imprenditore in bancarotta che si gioca tutto al poker. La società capitalistica produce guerra e disparità, ma a farne le spese è l’Uomo in generale: questo è sempre stato il messaggio, semplice e immediato, del cinema di Kaurismaki. Non fa eccezione questo suo ultimo film. Non c’è alcun passo in avanti nel discorso politico: si resta nella “comfort zone” di un umanesimo genuino, ma che questa volta ha il fiato corto.

 

Resta un’opera godibile, che strappa la sufficienza, ma che è ben poca cosa considerata la statura del regista. Si empatizza per Khaled, per la sua maschera keatoniana che a fatica trattiene l’emozione per il proprio dramma familiare; si ghigna per le metamorfosi del ristorante di Wilkstrom e della sua scalcinata squadra di camerieri (a proposito, la staffetta di cucine etniche intrapresa costituisce uno scontato esempio di globalizzazione positiva); si prova rabbia per l’ottusità della burocrazia e per la violenza dei naziskin. Ma manca il guizzo, il salto di qualità, la ragione per considerare quest’opera al livello non solo di capolavori come “L’uomo senza passato” e “Luci della sera”, ma anche di opere più leziose come “Miracolo a Le Havre”.

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