Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Come nei suoi precedenti film, Kaurismaki segue con partecipazione le storie dei personaggi che ama: i perseguitati dalla sorte, gli emarginati, e gli “irregolari”, quelli che non accettano di adeguarsi ai disvalori diffusi; quelli che non si integrano, quelli che non sopportano l’omologazione.
L’incontro era stato violento: un pugno del giovane Khaled (Sherwan Haji), prontamente restituito dal meno giovane Wikström (Sakari Kuosmanen); sangue dal naso per entrambi, sommaria medicazione e improvviso e sorprendente rovesciamento della situazione, in puro stile Kaurismaki, il regista che aveva già presentato Khaled, ma che aveva detto poche (e ambigue) cose su Wikström. L’avevamo visto, infatti, lanciare la propria fede nuziale, insieme a un mazzo di chiavi, verso la moglie, una rugosa signora, tabagista e alcolista, offesa da quel gesto così poco gentile. L’uomo se n’era, quindi, andato con la sua vecchia auto, sistemandovi i bagagli pieni di camicie, per rivenderle a stock (e a stento); si era infine giocato i magri incassi ottenuti, al poker; aveva stravinto, letteralmente sbancando il casinò e lasciando allibiti e furibondi tutti, dai giocatori al direttore di sala, che minacciosamente lo aveva pregato di non provarci un’altra volta. Aveva preteso di incassare la vincita in contanti, Wikström, poiché in contanti avrebbe comprato La pinta d’oro, ristorante sull’orlo del fallimento, in cui lavoravano ormai da mesi senza stipendio tre persone. Apparentemente, perciò, si sarebbe detto un uomo duro, forse un baro, forse un malavitoso, troppo attento a lasciare poche tracce degli “affari” che aveva in animo di condurre.
Khaled, invece era un siriano di Aleppo: la sua casa era stata bombardata; i suoi genitori erano morti; si era salvato fuggendo, insieme alla sorella, che aveva perso di vista seguendo le vie di fuga dei disperati che, come lui, cercavano un futuro certamente di lavoro, di sacrifici, ma anche dignitoso e sicuro. Era arrivato in Finlandia, a Helsinki, fortunosamente, accettando di viaggiare immerso nel carbone stivato in una nave. Intendeva chiedere l’asilo politico, convinto che sarebbe stato facile. L’avevano accolto, invece, con fredda e formale gentilezza: aveva fatto il giro degli uffici di polizia, si era lasciato interrogare e aveva spiegato la sua disperata situazione nei dettagli, ma il suo dossier era diventato una pratica burocratica come le altre, alla quale avrebbe risposto con parere negativo la Commissione apposita: lo avrebbero riaccompagnato in Siria. Era riuscito a fuggire e a rifugiarsi nel retro del ristorante di Wikström, dove, sorprendentemente, dopo lo scambio dei pugni, avrebbe trovato lavoro e accoglienza, solidarietà e qualche speranza per il futuro. Non racconto altro.
Come nei suoi precedenti film, Kaurismaki segue con partecipazione le storie dei personaggi che ama: i perseguitati dalla sorte, gli emarginati, e gli “irregolari”, quelli che non accettano di adeguarsi ai disvalori diffusi; quelli che non si integrano, quelli che non sopportano l’omologazione. Con il suo narrare amabile e poetico, senza moralismi e prediche inutili, egli ci trasporta come sempre nel mondo alternativo che gli piace, quello degli uomini un po’ folli, dei creativi fantasiosi che si inventano con pochi mezzi un modo di sopravvivere gratificato dall’amore e dalla solidarietà. Da regista attento ai problemi del mondo, tuttavia, egli non vuole soltanto raccontare la favola bella (che sarebbe sciocca) di chi s’illude facilmente che ogni sogno sia realizzabile, soprattutto in un momento storico come quello di oggi, di fronte all’immane tragedia dell’emigrazione dall’Africa e dal Medio oriente. Kaurismaki ha ben presente la deriva xenofoba e razzista che sta attraversando l’Europa e che coinvolge persino un paese apparentemente tranquillo come la Finlandia; così come ha orrore per la barbarie che rende insicura e precaria la vita del protagonista, di cui è difficile prevedere la sorte, mentre gli appare del tutto inadeguata un’accoglienza tanto politicamente corretta quanto burocratica e lontana dalle esigenze dei profughi che vorrebbero, come Khaled, rapidamente integrarsi. Il film, bellissimo, ci lascia quindi un messaggio di speranza e insieme di realismo, l’altro volto, appunto di quella speranza che non si rassegna a morire.
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