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L'altro volto della speranza

Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film

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La recensione su L'altro volto della speranza

di Peppe Comune
8 stelle

Waldemar Wikstrom (Sakari Kousmanen) lascia moglie, casa e un lavoro come rappresentante di camicie per rilevare “La pinta d’oro”, un ristorante malmesso che cercherà di rimettere in sesto. Lo aiuteranno i tre vecchi lavoranti del ristorante, in attesa di avere diversi stipendi dal vecchio proprietario : Nyrhinen (Janne Hytiainen), un cuoco affatto originale nella preparazione dei piatti, Calamnius (Ilkka Koivula), un cameriere dalla faccia poco rassicurante, e Mirja (Nuppu Koivu), una cameriera dai modi diretti. Tutti  (insieme cercheranno di dare al posto un tocco “internazionale”. Khaled Ali (Sherwan Haji) è un ragazzo siriano che è scappato da Aleppo per non perire sotto le bombe com’è capitato a gran parte della sua famiglia. Ha girovagato per tutta l’Europa prima di approdare quasi per caso in Finlandia. Il suo obiettivo è ricongiungersi con Miriam (Niroz Haji), la sorella di cui ha perso le tracce in Turchia. Wikstrom e Khaled avranno modo di incrociare le proprie strade ad un certo punto, e di stringere rapporto nella maniera più semplice e naturale possibile : parlandosi e capendosi.

 

Sakari Kuosmanen, Sherwan Haji, Nuppu Koivu, Janne Hyytiäinen, Ilkka Koivula

L'altro volto della speranza (2017): Sakari Kuosmanen, Sherwan Haji, Nuppu Koivu, Janne Hyytiäinen, Ilkka Koivula

 

“L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismaki (Orso d’argento a Berlino per la regia) è un film che suscita più di una risata mentre ci racconta della tragedia della guerra, ed evoca la guerra mentre ci mostra come, tra persone che si incontrano senza filtri di sorta, possa nascere un umanesimo rinnovato. In tutta la prima parte, il film si snoda lungo due binari paralleli, entrambi dominati dalla presenza invasiva di due anime raminghe, rappresentativi ognuno di due modi distinti di scoprirsi e sentirsi degli emarginati sociali. Wikstrom per l’originalità di stile che dimostra di avere nel quotidiano confrontarsi con l’ambiente che lo circonda ; Khaled per il fatto di essere figlio di un mondo avvertito come un’entità estranea nel globalizzato occidente “civilizzato”. E’ sempre una questione di fughe nel cinema di Aki Kaurismaki, ma se di Wikstrom seguiamo il cammino senza che si sappia il perché abbia lasciato la moglie, la casa ed il lavoro, di Khaled veniamo a sapere precisamente da dove  fugge, perché è fuggito e cosa esattamente va cercando nel mondo in cui ha chiesto asilo politico.  

La parte di film dove orbita Wikstrom rispecchia fedelmente la poetica di Kaurismaki, un mondo strambo abitato da diverse figure e situazioni iconiche, il cui insieme è proprio come quell’unico fiore che (spesso) campeggia in mezzo ad un tavolo disadorno : una nota di colore (e calore) in mezzo al buio che si addensa all’orizzonte. Un mondo che arriva sempre dopo che le cause hanno prodotto le loro disarmonie sociali, quando gli effetti hanno le facce rassegnate che popolano la schiera dei “nuovi” poveri planetari. Ecco, il mondo di Aki Kaurismaki ondeggia tra il riflettere amaro sulle condizioni di vita degli emarginati sociali e il mostrare come questi usano ironizzare sul ruolo loro assegnato nel disegno sociale, come si rifiutano di abitarlo nella maniera canonica prescritta dal senso comune dominante. Ci sono i volti appassiti di donne che sognano l’ultimo viaggio oltre le rive del baltico ( con l’immancabile cameo della fidata Kati Outinen), la laconicità come specchio di disagi emotivi, le navi che conducono nel “sognato” Messico (come in “Ariel”), le facce torve di uomini che si scoprono essere delle simpatiche canaglie, le inquadrature “fredde” color pastello, musica in ogni dove e le uniche canzoni che vale veramente la pena di ascoltare. Insomma, il timbro nordico che domina (qui come altrove) su una cifra stilistica che spazia allegramente tra i generi e il cinema di tutto il mondo (dal muto al noir, dal melodramma ricercato stile Hollywood classica al rigore stilistico di stampo più europeo). 

Nel seguire il cammino di Khaled, invece, Kaurismaki si dimostra “insolitamente” loquace nel descriverne le sorti esistenziali. Fa in modo che il ragazzo siriano rappresenti l’urgenza di raccontare la tragedia della guerra che vive il suo popolo, di spiegare i motivi del perché ha lasciato Aleppo per iniziare un viaggio incerto in giro per l’Europa. Khaled incarna così quella parte di umanità che vive un esilio imperituro, quella che si sente ospite indesiderato in qualsiasi paese “civile” chieda asilo, tollerata al massimo, per ottemperare ad una legislazione che garantisce ospitalità su condizione, e non certo per corrispondere ad uno spirito solidaristico in ragione del quale si dovrebbe offrire un aiuto incondizionato a chi è in palesi difficoltà. Kaurismaki fa ripetere in più circostanze a Khaled le diverse tappe che hanno contraddistinto la sua storia errante, facendone il simbolo di un altrove che è avvertito sempre come una cosa troppo lontana da doverci seriamente riguardare. Mai l’autore finlandese era stato così dichiaratamente esplicito nel voler generare empatia nei confronti di un suo personaggio, nell’affermare, in una maniera neanche tanto velata, che centriamo tutti qualcosa per le pene che ha da soffrire un ragazzo come Khaled, anche un paese ultra civile come la Finlandia.

L’incontro tra Wikstrom e Khaled (dopo circa un ora) avviene in perfetto stile Kaurismaki. Si guardano in cagnesco sul retro del ristorante e dopo un brevissimo conciliabolo si scambiano vicendevolmente un pugno. Stacco di inquadratura. Ritroviamo i due seduti amichevolmente ad un tavolo mentre i loro nasi gocciolano ancora sangue. Si ritorna ad essere completamente ellittici senza perdere in incisività narrativa, si continua a far incontrare persone a diverso modo in difficoltà senza che questo comporti fare domande, chiedere spiegazioni o fornire documenti validi. Ci si aiuta per come si può e fin quando si deve, per Kaurismaki non sembrano esserci altre possibilità per chi abita lo stesso spazio e vive in un tempo storico che fa scoprire ogni emarginato sociale come un rifiuto necessario prodotto  dalle contraddizioni planetarie. La grandezza di Aki Kaurismaki è stata sempre quella di saper evocare impressioni sullo stato delle cose anche solo attraverso una sola inquadratura, di fare di ogni singola inquadratura uno spazio icastico dove possono coabitare un insieme composito di emozioni. Per lui, l’indifferenza e la solidarietà, la speranza e il disincanto, sono prodotti di uno stesso mondo e abitano lo stesso spazio, basta solo scegliere da che parte stare, decidere se far prevalere la propria volontà o accodarsi al senso comune dominante. E’ proprio quella che nasce da questo semplice atto volontaristico l’altra faccia della speranza, alternativa a quella propinataci dall’azienda mondo che porta ad inquadrare uno come Khaled un profugo accettato fin quando rientra nei limiti supportati dalla contabilità nazionale e non come un uomo considerato per ciò che realmente è nel contesto contemporaneo : vittima di colpe che non ha commesso.

E’ sempre un piacere immergersi nel cinema di Aki Kaurismaki. Un maestro del nord che fa del cinema dalla leggerezza autoriale.        

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