Regia di George Clooney vedi scheda film
Venezia 74 – Concorso ufficiale.
La carriera da regista di George Clooney era partita con il botto, con due hit d’autore come Confessioni di una mente pericolosa e Good night, and good luck, per poi ripiegare su un percorso che ha sempre avuto una dose di fascino classico (In amore niente regole), pervenendo a risultati alterni, apprezzabili con Le idi di marzo, discutibili con Monuments men.
Complice una sceneggiatura scritta da Joel e Ethan Coen, due registi che con George Clooney vanno a nozze spesso e volentieri (Fratello, dove sei?, Prima ti sposo poi ti rovino, Ave, Cesare!), e aggiustata dal regista stesso insieme al fidato collaboratore Grant Heslov (in questa combinazione di ruoli sono al quarto film insieme), Suburbicon non rappresenta certo una ventata di aria fresca e alla finezza tipica dei fratelli del Minnesota subentra una pioggia di cascami più inclini al colpo ad effetto che alla ricerca di una sinfonia calibrata.
Stati Uniti, fine anni cinquanta. Mentre la florida comunità di Suburbicon è scossa dall’indesiderato arrivo di una famiglia di colore, un’effrazione che comporta anche una morte violenta sconvolge la vita dei Gardner.
Il capofamiglia (Matt Damon) si comporta come se niente fosse, la sorella (Julianne Moore) della vittima (sempre Julianne Moore) cambia atteggiamento e il ragazzino di casa capisce prima di tutti gli altri che dietro l’accaduto si nasconde qualcosa di torbido.
L’arrivo di un agente assicurativo (Jason Isaac) e il ritorno sul luogo del delitto dei due assassini, condurranno all’inevitabile resa dei conti, mentre il resto della comunità è in tutt’altre faccende affaccendato.
Come visto pochi giorni fa in Downsizing, anche in Suburbicon c’è un invito a cambiare vita, in questo caso trasferendosi in una località che promette una vita modello: ça van sans dire, è sempre meglio diffidare da tutto ciò che agli occhi appare perfetto, perché il serpente ama annidarsi proprio tra le pieghe della presunta perfezione, essendo più libero di agire quando si trova di fronte a una superficialità diffusa.
Così, mentre la presenza di una famiglia di colore inasprisce gli animi, sembrando il prototipo delle armi di distrazione di massa odierne, lontano dall’attenzione di chiunque, è proprio una famiglia come tante altre a nascondere i germi peggiori, destinati a moltiplicare i loro effetti in una reazione a catena che non può che travolgere tutti coloro che pensano di essere furbi senza esserlo.
Si rientra quindi nel campo dell’inettitudine e della stupidità umana, così come dell’atavica avidità che spinge a gesti estremi dalle conseguenze incontrollabili, temi da sempre presenti nel cinema dei fratelli Coen, che probabilmente hanno passato la mano non solo per fare una cortesia a un loro grande amico, ma anche per non ripetere una materia che li ha visti già arrivare nei pressi della perfezione (su tutti Non è un paese per vecchi, andando più indietro nel tempo Blood simple e rimanendo più vicini ai giorni nostri Burn after reading).
Dal canto suo, George Clooney non bada più di tanto al pelo nell’uovo e adopera un ingranaggio a cerchi concentrici che aspira chiunque capiti a tiro, con la fotografia di Robert Elswit (premio Oscar per Il petroliere, nominato per Good night, and good luck.) chiamata a garantire la pulizia formale, aggiungendo qualche colpo di coda. Non che alla trama servano aiuti particolari per innescare i fuochi d’artificio, che nella seconda parte diventano pirotecnici, semmai la successione incessante non ha il pregio della sorpresa, in quanto gran parte dello sviluppo è pronosticabile. Si tratta quindi di godersi, o rigettare, uno show più espositivo che d’autore, quasi come se fosse un’espressione di serie B tirata a lucido, con la suspance sopravanzata da iperboli surreali e morti ammazzati in cascata.
In questo organigramma, Matt Damon concede il bis, dopo Downsizing, per quel che riguarda l’avventatezza del suo personaggio, senza brillare più di tanto, mentre Julianne Moore è il perno di un doppelganger che a un certo punto la vede in versione La signora ammazzatutti e Jason Isaac ha l’effetto del reagente definitivo, partecipando a un paio di duetti con la compagna di set che rimangono tra le escursioni più colorite dell’intero film.
Un altro elemento a favore risiede nell’accompagnamento musicale siglato da Alexandre Desplat che, per lo più, contrappunta quasi ogni momento anche di secondaria importanza, passando in cavalleria quando la scena s’incendia.
Comunque sia, anche questa qualità rientra nell’ottica di un confezionamento infiocchettato senza lasciare al caso alcuna possibilità di incursione, attento pure nell’alternare il giorno e la notte, con tanto di discorso sull’integrazione rileggibile oggi anche in forme presenti nella nostra realtà, per un’opera derivativa e tutt’altro che insondabile, speziata di un black humour trascinante ma anche più morigerato di quanto vorrebbe forse essere.
Un esercizio di stile che non può più stupire o ambire al gotha dei titoli destinati a rimanere per sempre vivi nella memoria, ma che rimane assolutamente spendibile nei confini dell’intrattenimento made in Hollywood (con quindi tutto il carico di regole del caso).
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