Regia di Emmanuel Finkiel vedi scheda film
La scommessa di Emmanuel Finkiel, regista di La Douleur, non era cosa di poco conto. Va bene che dietro il dolore della protagonista si cela quello vissuto da un monumento della cultura francese come Marguerite Duras, trasposto nel romanzo da cui il film prende il nome e passi pure il fatto che la storia, ambientata nella Parigi della resistenza all’occupazione nazista e le deportazioni nei campi di sterminio offrono di per sé una materia drammaturgia e affabulatoria già consolidata e capace di non lasciare indifferenti anche chi non è propenso a mettere a nudo i propri sentimenti. I quesiti sulla riuscita di La Douleur stavano altrove, e per esempio nell’intrattabilità di una scrittura come quella della Duras, per nulla disposta a farsi irretire da strutture narrative classiche, e perciò abituata a fare a meno dei normali riferimenti spazio temporali, nella pagina come sullo schermo, sostituiti da flussi di coscienza in cui nel caso specifico ad andare in scena non è solo l’afflizione di Marguerite per l’assenza del marito ma anche il senso di colpa per un destino più fortunato di altri.
Nel cercare un compromesso tra il dentro e il fuori e quindi tra la cronaca dei fatti, sviluppati attorno al tentativo di Marguerite di salvare il marito con l’aiuto di un membro del partito collaborazionista (Benoit Magimel) innamorato di lei - inserto che occupa la prima parte del film, la più canonica anche nel dare visibilità alla messa in scena del periodo storico - e il labirinto psicologico che fa da contraltare all’attesa del responso sul destino del coniuge, coincidente con la sezione più introspettiva del lungometraggio, Finkiel riesce a raffreddare l’elemento emotivo (amplificato dai riferimenti alla concomitante tragedia dell’olocausto) attraverso l’utilizzo della voce fuori campo.
Così, se da una parte questo espediente riesce a penetrare la maschera di dolore di Marguerite, immergendo lo spettatore nell’abisso interiore in cui precipita la donna, dall’altra il fatto di filtrare la realtà attraverso l’intelletto permette al regista di prendere le distanze dal dramma contingente, collocandolo in una prospettiva di razionalità che in qualche modo consente alla donna di ritagliarsi attimi di tregua rispetto al dolore che l’attanaglia, al film di evitare le accuse di strumentalizzare l’emotività dei suoi contenuti. La Douleur non lo fa anche per le asperità - nella sua usufruizione - derivate dal fare delle immagini il punto d’incontro tra lo sguardo dello spettatore e l’anima della protagonista, quest’ultima segnalata da sequenze fuori fuoco e visioni extracorporee di matrice psicoanalitica. A dare volto e corpo ai pensieri della scrittrice francese l’intensità raccolta di una bravissima Melanie Thierry.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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