Regia di Zabou Breitman, Eléa Gobbe-Mévellec vedi scheda film
“Possiamo constatare che, in ogni epoca, l’intensità della fede religiosa è andata di pari passo con inaudita crudeltà e scarso benessere” ––B. Russell (Perché non sono cristiano)
Dove osano le rondini, uomini e donne invece non riescono neppure ad avvicinarsi, a protendere, ad anelare. Uomini e soprattutto donne, tutti sotto quello stesso cielo, vivono al contrario una vita miserabilmente grigia e desolante, oppressi da un cappa di fondamentalismo più soffocante dello smog.
La bellezza degli stupendi sfondi acquarellati conferisce quasi, per contrasto, ulteriore forza lancinante a ciò che poi in definitiva quelle immagini mostrano: ovvero, sempre e soltanto miseria, devastazione e aridità (culturale, sociale e materiale). Quelle immagini, stupende visivamente ma dirompenti emotivamente, sono immagini in grado d’imprimersi a fuoco nella memoria.
Parliamo di quell’aula universitaria ridotta ad un cumulo di detriti che manco Chernobyl; parliamo di un campo da calcio dove alle porte sono appesi dei cappi; parliamo dell’esterno di un bar dove le donne sono costrette ad aspettare, avvolte in quei soffocanti burqa e accovacciate come fossero cani, i propri mariti che invece si rilassano bellamente all’interno; parliamo di un atto apparentemente semplice e innocente come il sedersi fuori casa a fumare una sigaretta per rilassarsi, un atto che si fa quasi senza pensarci, ma solo se si è uomini. Se si è uomini dopo una sfuriata, dopo un litigio, si può pure uscire di casa e andare a farsi un giro; se si è donne invece si rimane confinate in casa come i peggio criminali a rodersi dentro, a sfogarsi contro i muri di case fatiscenti e diroccate.
Les Hirondelles de Kaboul possiede una potenza, viscerale e destabilizzante, forse persino superiore a quella di film come The Breadwinner; perché se là si trattava di un film per bambini, a tratti favolistico, certo adatto per diffondere un messaggio; qui si tratta invece di un film per adulti che non fa sconti a nessuno e che non lascia spazio a vacui miraggi.
Difficile immaginare opera più attuale, in questo 2021 che verrà ricordato come l’anno del ritorno al potere di quegli stessi fanatici ignoranti. Inutile illudersi, però: certo gli americani non hanno portato la libertà e la democrazia (ma, dopotutto, chi ci ha mai creduto?), ma non per questo significa che coi talebani di punto in bianco si possa discutere. Non si discute con chi ritiene di essere sempre e comunque nel giusto; con chi ritiene di aver la verità in tasca, e una verità ben superiore.
Questi sono i figli di un Paese dilaniato da quasi cinquant’anni di guerra; sono i figli di un Paese arretrato dove nei primi decenni del ‘900 esisteva ancora la schiavitù nella campagne, dove ancora alla fine dei ‘70 la persona media era dedita a coltivare la terra per paghe da fame e dove tanti di quei padroni nonché proprietari terrieri al primo timido cenno d’un governo disposto a concedere minime redistribuzioni di terra ed infrastrutture pensarono bene di darsi alla guerriglia contro “i senza dio comunisti” (che ovviamente poi comunisti non erano); sono i figli di un Paese che ancora oggi ha l’aspettativa di vita più bassa dell’intero pianeta.
Eppure, questi figli ritengono più importante una morale primitiva rispetto a felicità e libertà che invece sarebbero, pare, stupide manie occidentali; ritengono più grave un adulterio che non un omicidio; ritengono che “un uomo non debba mai niente ad una donna”; ritengono più determinante la cieca osservanza di precetti assurdi rispetto al dare ai propri concittadini (ai propri bambini) una vita dignitosa, perché tanto “Dio provvederà”, “E’ Dio che lo vuole”…
L’opera di Breitman e Gobbé-Mévellec è inesorabile, procede senza troppe distrazioni verso l’inevitabile risoluzione finale che porterà quasi tutti i protagonisti a riunirsi in un’unica scena. Insieme nell’agonia e insieme nella tragedia. La trama, affilata come un rasoio, prende alcuni piccole vicende private emblematiche che, senza alcun bisogno di sottolineature ecumenico-educative, conducono dritto dritto al cuore della questione, ovvero al ribadire come quello mostrato non sia vivere.
A ribadire il semplice fatto che quando si lascia troppo spazio al totalitarismo religioso l’ineludibile esito è sempre e comunque un mondo di sofferenza, peraltro facilmente evitabile: non ci si ammazzasse per nulla; si arrivasse finalmente a riconoscere le donne come esseri umani in tutto e per tutto e non oggetti di proprietà; ci si preoccupasse di nutrire, curare ed istruire i propri figli invece che indottrinarli e costringerli a ripetere a pappagallo formule oscure nelle madrase***…
Dal punto di vista tecnico, inoltre, pur nella scarsità di mezzi e risorse, il film si mantiene sempre su un buonissimo livello: l’animazione non è mai “scattosa” e, di nuovo, i fondali acquarellati colpiscono nel segno.
Che dire d’altro? Se non di non lasciarsi scappare questo Les Hirondelles de Kaboul, uno di quei film capaci di unire bellezza figurativa e introspezione concettuale, qualità artistica e riflessione; uno di quei film, insomma, che riconciliano con un’idea di cinema che non sia solo mero intrattenimento (comunque non disprezzabile) o all’estremo opposto vuoto onanismo intellettualoide criptico e serioso e che non ha niente da dire.
*** Che non sia in alcun modo considerabile vera conoscenza lo si può evincere anche dal fatto che questi poveri bambini sono spesso costretti ad imparare a memoria l’intero Corano (ovvero, qualcosa come 80.000 parole divise in più di 6200 versetti) a prescindere dal significato delle parole.
E, chiaramente, a svilimento di ogni possibilità di sviluppo d’una coscienza critica: “[Questi bimbetti] portano a termine [una simile] prodigiosa impresa a scapito della loro capacità di ragionamento, poiché spesso le loro menti sono così tese per lo sforzo mnemonico che essi sono poco inclini al pensiero profondo”. E tutto, come detto, senza preoccuparsi minimamente del significato del testo: il Corano è recitato semplicemente perché si crede la sua declamazione costituisca di per sé un’opera meritoria.
“Quest’indifferenza verso il senso delle parole raggiunge un livello tale che perfino gli eruditi che hanno studiato i commenti – per non parlare dei laici – non riescono a capire quando i versi che stanno recitando condannano, in quanto peccaminose, azioni che sia loro che gli ascoltatori compiono tutti i giorni, se non addirittura durante la vera e propria cerimonia”.
Cfr. IBN WARRAQ, Perché non sono musulmano, Milano, Ariele, 2002, pp. 104-05 e sgg.
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