Regia di Deniz Gamze Ergüven vedi scheda film
Torino Film Festival 35 – Festa mobile.
In un sistema ripetutamente attraversato da ingiustizie insopportabili e contraddistinto da condizioni di vita disagevoli, la scintilla che innesca la protesta può arrivare senza alcun preavviso e travolgere anche chi vorrebbe solo continuare a curare i propri affetti, con tante di quelle problematiche in essere, che di aggiungerne altre proprio non se ne parla. Eppure shit happens, non rimane che gettarsi nella mischia e cercare di ricomporre quel puzzle familiare che rischia irrimediabilmente di sgretolarsi.
Los Angeles, primavera 1992. Dopo il pestaggio subito da Rodney King da parte di quattro agenti della polizia e le prime notizie giunte dal conseguente processo, un quartiere periferico è messo a ferro e fuoco, con violentissimi scontri che vedono coinvolte anche tante persone con l’unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato nel momento meno indicato.
Accade così che Millie (Halle Berry), una madre single che accoglie nella sua umile casa anche tanti ragazzi abbandonati, finisca inghiottita dai tumulti. L’aiuto sopraggiunge dall’uomo più inaspettato, quel Obie (Daniel Craig) abituato ad alzare la voce per un’inezia e raramente prodigo in atti gentili.
Dalla violenza domestica rappresentata in Mustang, Deniz Gamze Erguven passa alla strada, dalla Turchia periferica vola negli Stati Uniti, a pochi chilometri da Hollywood, attraverso una produzione – visti i temi -stranamente europea, sempre sotto l’ombrello di un sistema che di fronte ai soprusi più evidenti tace e reprime senza tanti scrupoli.
Uno sguardo al passato che si riflette sul presente, con gli scontri razziali che producono continui focolai e il valore della vita umana svenduto.
La regista nata ad Ankara nel 1978 si cala dapprima in una realtà già burrascosa di suo, una miccia troppo corta per consentire di ripararsi alla sua accensione, e poi nel marasma più completo, durante il quale la giustizia, già precaria, svanisce nel nulla e la legge torna allo stato primordiale.
Questa discesa disperata è elaborata in assoluta conformità al soggetto: partorisce un caos inappellabile, un’onda anomala che non guarda in faccia nessuno e travolge ogni cosa, srotolando una concitazione da tachicardia, rendendo ben chiaro come la violenza goda della proprietà transitiva, quanto finirci invischiati possa non essere una scelta e non finire nel tritacarne sia una questione di particolari.
Ricreato uno sfondo idoneo, Kings non riesce a sfruttarlo appieno, perdendosi in un rapporto adulto, quello tra Millie e Obie, anomalo ma anche aleatorio, dalle tonalità surreali e poco pratico, ma anche le altre diramazioni secondarie raramente vanno a buon fine.
Un peccato tutto fuorché veniale per un’opera che entra di peso in un evento drammatico. Non ripetere la solita zuppa è un valore da non sottovalutare, il disorientamento dilagante è quanto mai consono, ma sbiadire il riquadro d’insieme con l’estensione delle singole vicende, peraltro posizionandole in rilievo, è un fardello, un guaio per giunta cercato.
Una scelta infelice, da cui non si scappa, nonostante due protagonisti sorprendenti: Halle Berry trasmette un’ansia fuori scala, un cuore di mamma che non conosce il significato della parola rassegnazione, e Daniel Craig si assume un rischio da artista, con un personaggio ombroso, dicotomico rispetto a quel James Bond che gli ha consentito di diventare una star mondiale (con Skyfall su tutti).
Alla resa dei conti, di Kings non rimarrà traccia, perché nonostante i meriti che gli appartengono, la sua energia ribelle e il suo cuore pulsante, è anche l’esempio lampante di come ci si possa perdere in un bicchier d’acqua.
Dissestato, seppur dotato di uno stile trascinante.
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