Regia di Adam Wingard vedi scheda film
Un enorme pasticcio. Nessuna espressione è più azzeccata per descrivere l'ultimo film di Adam Wingard, trasposizione del manga cult Death Note. Per far convergere dodici volumi di meticolosi stratagemmi investigativi misti alle domande etiche di fronte a cui l'opera madre era capace di porre lo spettatore in poco più di un'ora e mezza era quanto meno ovvia la necessità di una semplificazione, che in questo caso si rivela tanto estrema da dover essere chiamata, più propriamente, banalizzazione.
Questo è il Death Note di Netflix: un teen movie privo di mordente, i cui personaggi trasposti sono solo un'opaca e imprecisa ricalcatura degli originali e la trama un assurdo susseguirsi di eventi non sorretti da una logica propriamente umana (il caso delle deduzioni di L basate su premesse inesistenti). A poco serve la voce di Willem Dafoe, data l'importanza marginale attribuita al personaggio. Il ritmo è eccessivamente serrato, dando continuità ad un'estetica che tende ad omologare la gran parte delle produzioni Netflix recenti, ma ciò non aiuta una sceneggiatura superficiale che fallisce sia nel caratterizzare i personaggi che nel rendere chiara l'azione.
Wingard prova a metterci del suo, richiamando nella prima parte di film le dinamiche al limite dello splatter di Final Destination e con una fotografia giocata sulle luci al neon della notte di Seattle, ma tutto questo non basta se il problema di fondo è l'aver trasformato un giovane idealista pronto a tutto pur di rendere il mondo migliore, seguendo una propria idea romantica e priva di sfumature di giustizia, in un adolescente post-punk un po' tonto, continuamente abbindolato da una cheerleader e un dio della morte, che uccide per far colpo sulla prima e non far arrabbiare il secondo.
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