Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
Affermazione, domanda, domanda. Ricordo rosso di dolore, constatazione polemica, istanza irata. Violentata mentre moriva. Ancora nessun arresto? Come mai, sceriffo? La dinamica della passione civile, la lotta senza quartiere alle inefficienze burocratiche, la immutabile tigna del botolo che, pur non di lasciare l’osso, mette seriamente a repentaglio la pax sonnolenta della provincia americana. Il tutto impresso a caratteri neri su sfondo rosso, su tre manifesti che sono la lettera scarlatta di un’America paciosamente violenta, razzista, omofoba ma anche dolente, resistente salamandra al fuoco della vita che scorre, forte di un sentimento di appartenenza che cova sotto la cenere degli sguardi in cagnesco.
Il merito principale di Tre manifesti a Ebbing, Missouri sta nella rigorosa cesellatura dei caratteri e nella capacità di imprimere loro improvvise accelerazioni verso la luce del mutamento interiore, nel trasformare maschere pirandelliane in uomini e donne a tutto tondo. Paradossalmente, ma solo ad una analisi manichea e parziale, il concetto può risultare assai più vago se applicato alla protagonista indiscussa: la mamma ferita ed alla legittima ricerca della verità (una Frances McDormand su cui ogni commento entusiastico sarebbe superfluo, scultorea nella determinazione che regala a Mildred, miniera di espressioni facciali raggelate, di scurrilità assortite, ma anche covo di sorrisi repressi capaci di sciogliersi in una finale apoteosi di speranza pensierosa). Una vendicatrice solitaria impossibilitata ad arrestarsi, sola tra le strade polverose del Missouri o in compagnia di quelle scritte iconiche, ma anche sardonica fustigatrice degli altrui costumi (la ragazza dello zoo alias la giovane fiamma del marito, il corteggiatore lillipuziano cui non concedere mai una reale speranza di concretizzazione, il ragazzo che affitta spazi pubblicitari che è solo una variabile facilmente rimovibile lungo la strada che condurrà all’obiettivo). E invece, ed anche: una donna con le sue contraddizioni, le sue fragilità, le sue inadeguatezze (la femminilità rude soffocata nelle punitive tute da lavoro, il rapporto difficile con quella figlia che non c’è più), una vindice Erinni pure in grado di accogliere e lenire le altrui debolezze (si veda la scena dell’improvviso colpo di tosse dello sceriffo malato), senza mai perdere di vista il proprio compito quasi messianico, scolpito in quella rapida successione di frasi che sono il confuso discorso di un dolore che finalmente può farsi chiaro, la memoria che diventa futuribile ed eterno memento, gli interrogativi che trascendono la banalità terrena fatta di polvere annoiata delle strade del Missouri e di agenti che, in una parola, se ne fregano, anzi si mettono di traverso.
È proprio sugli agenti che la potente capacità di scrittura di McDonagh ha modo di esprimersi al meglio. La fissità dell’inerzia che, con calma, cresce sino a diventare complessità di pensieri e azioni; l’indole razzista che cela una personale incapacità di vivere e che non esclude, anzi contempla, una speranza ed una possibilità di riscatto che pure passi attraverso le strettoie della sofferenza. Lo sceriffo Willoughby e l’agente Dixon (gli strepitosi Woody Harrelson e Sam Rockwell) sono l’altra faccia incerottata del dolore di Mildred, anime minate dal grigio della provincia, corpi devastati dalla malattia o dalla altrui testarda determinazione. Il razzismo di Dixon è una generica fobia verso l’altro ed il diverso che è mero atteggiamento di superiorità, destinato a scontrarsi con un altro e più complesso ruolo (il figlio mammone di madre a sua volta genericamente razzista) che regala siparietti di comica malinconia. Quella malinconia, meno ironica, che aderisce perfettamente al personaggio dello sceriffo malato terminale. Il lungo intermezzo dedicato al suo suicidio è un poetico canto alla vita che resta o che se ne va, un soffio di disperante immobilità che apre mondi possibili, il lucido discorso finale di un uomo che ha sbagliato senza alcuna cattiveria, che ha lasciato andare le cose come spesso devono andare, seguendo codici non conoscibili o mai decifrabili.
Film innervato di passione, ansia di riscatto, tensione, Tre manifesti a Ebbing Missouri. Un lungo passo lento verso l’eroismo fragile dei diseredati che si scoprono guerrieri. Un appropriato j’accuse alle fitte nebbie della burocrazia caciarona e inefficiente (gli agenti che litigano tra loro, i pestaggi, il concetto del farsi giustizia da soli che non risparmia niente e nessuno). Ma non solo. Questi elementi che elevano la sceneggiatura a romanzo di strada americano, a girotondo di caratteri complessi e contraddittori (molti vi hanno giustamente visto reminiscenze e topoi dei fratelli Coen, del resto già rappresentati attraverso la musa McDormand), a western contemporaneo e millennial, sono ampiamente mescolati a squarci di umorismo nero e politicamente scorretto che, nella sua apparente devianza, conferma in realtà gli assunti di partenza: il senso della lotta, il meme iconico che disturba e rimescola l’ordinarietà, la possibilità di cambiare, di crescere, di rinascere nella sopravvivenza. E ancora: laddove la trama si fa plumbea, McDonagh inserisce mirabili elementi di romanticismo che non diventa mai incongruo miele né edulcorata lettura delle cose. Tre manifesti che fanno da contraltare a tre lettere di addio. Quelle che lo sceriffo lascia alla moglie, alla donna in lotta per la giustizia, all’agente ed alle sue scombiccherate teorie. Sono messaggi di amore postumo che rimettono le cose a posto, pur nella loro relatività. Viatici per il futuro, parole leggere come pietre senza punta, che ricordano che, sì, andando avanti per la propria strada (oppure avendo il coraggio, la possibilità e la voglia di percorrerla in senso inverso), qualcosa alla fine si riuscirà a trovare. E quei cupi punti di domanda sui manifesti scompariranno, forse.
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