Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
Mildred Hayes (Frances McDormand) convive con il dolore della tragica morte della figlia Angela ((Kathryn Newton), violentata e bruciata viva da un sadico assassino che è ancora a piede libero. Sono passati diversi mesi dal tragico evento e le ricerche della polizia di Ebbing, una cittadina del Missouri, sono ancora al punto di partenza. L’inchiesta è condotta dallo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson), uno stimato poliziotto ammalato di cancro, che se da un lato non fa mancare la sua comprensione al dolore di Mildred, dall’altro lato si dice convinto dell’onestà del lavoro svolto. Per ridare luce al tragico fatto di cronaca, Mildred affitta tre tabelloni pubblicitari in disuso che si trovano lungo la strada che porta a Ebbing e fa affiggere tre manifesti che recano rispettivamente la scritta : RAPED WHILE DYING/AND STILLARRESTS ?/ HOW COME CHIEF WILLOUGHBY ? (“Stuprata mentre stava morendo. E ancora nessun arresto ? Come mai sceriffo Willoughby ?”). I manifesti hanno l’effetto di creare una sorta di spartiacque all’interno della cittadina, tra chi è abituato a subire i modi violenti della polizia e chi è proprio da quei metodi che si sente maggiormente rassicurato. La popolazione si spacca, e molti di quelli che mai hanno fatto mancare un appoggio compassionevole per quanto capitato alla donna, adesso non possono non offrire solidarietà allo stimato sceriffo ritenuto ingiustamente messo sotto accusa. È soprattutto l’agente Jason Dixon (Sam Rockwell) a mostrarsi contrariato verso questa storia che riemerge in una maniera così inaspettata. Razzista omofofo e facile picchiatore, sembra avercela in particolar modo con Red Welby (Caleb Landry Jones), il gestore dell’agenzia pubblicitaria che ha affittato a Mildred i tre tabelloni per i manifesti.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri”del regista irlandese Martin McDonagh (quello di “In Bruges - La coscienza dell’assassino”) fa emergere un’idea di cinema che ha nella compattezza della scrittura, nella potenza visiva delle immagini e nella coerenza stilistica dell’intreccio narrativo, i suoi punti di maggior forza. Martin McDonagh rielabora in maniera originale e con venature più “drammatiche” quel tema della “stupidità umana” tanto caro ai fratelli Coen. Riferimento che nasce, non solo dalla presenza invasiva di Frances McDormand (che di Joel Coen è moglie), una delle attrici feticcio dei fratelli del Minneapolis, ma anche per il suo tendere a prosciugare nella sottile ironia l’incedere della tragedia, a fare del caso un elemento che interviene a cambiare i moventi di partenza. Ma sono solo accenni, rinvenibili nella natura (ormai) seminale del cinema dei fratelli Coen e che nulla tolgono al carattere originale del film.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è una sinfonia in nero equilibrata su tre spartiti caratteriali che finiscono per completarsi a vicenda. Mildred non si rassegna alla morte ancora impunita della figlia. Sta capendo sulla sua pelle il peso incivile dell’ipocrisia sociale e dell’indifferenza “comunitaria”. È una donna sola all’interno di un contesto sociale che si è chiuso a riccio a salvaguardia dei suoi valori consolidati. Intraprende una lotta disordinata, ma con la consapevolezza che ha solo il conforto della memoria per far valere le sue legittime ragioni. Lo sceriffo Willoughby è il destinatario di un’accusa infamante che in tutta onestà ritiene di non meritare. Vive sull’orlo della morte, al confine tra il rimorso di non aver fatto abbastanza e la convinzione di poter suscitare negli altri aneliti di tenerezza. Nel bene e nel male, rappresenta la pietra angolare di questa triste storia (in armonia con le lettere che destinerà a Mildred e Dixon), con il decisionismo virile che si richiede al ruolo che occupa e il respiro umano che emerge dalla sua figura di maschio rassicurante. Imprigionato in una cappa d’odio che gli annebbia la ragione, l’agente Dixon è il razzista omofobo che ha un’idea del tutto arbitraria di tutela dell’ordine sociale. La violenza istintiva con cui si esprime è il segno solo più evidente di scompensi personali e nevrosi collettive, frutto di condizionamenti familiari irrisolti e di una domanda a basso costo di sicurezza sociale. Dixon è la spia rossa di una società che tollera l’arbitrio sulle minoranze più deboli finchè non deflagra in un disordine generalizzato.
I tre manifesti squarciano di nuova luce la pavida rassegnazione della provincia “tipo” americana, dicono cose che non si vogliono sentir dire, si esprimono con parole che fanno entrare in rotta di collisione la richiesta legittima di avere giustizia con le derive giustizialiste, le verità che non si devono negare con la negazione del domani. I tre manifesti rappresentano il coraggio di rimettere in circolo idee scomode contro la passività sonnacchiosa che tiene tranquille le coscienze : la memoria che non cede all’oblio.
Quello che ottengono sono un riacutizzarsi del dolore, un riapparire di fantasmi, un riesplodere della collera. Come ogni nuovo inizio che invita a rivalutare ogni cosa usando diversi parametri di riferimento. Come quel fuoco devastante che, dopo che è trascorsa la sua furia devastante, impone di riiniziare a guardare le (stesse) cose da una diversa prospettiva.
I tre manifesti si configurano come un campo aperto dove a ognuno è dato il modo di confrontarsi con gli altri e scorgere se sotto la cenere è rimasto qualcosa intorno a cui potersi appigliare. Ed è in questo campo aperto che Martin McDonagh porta i suoi giganti di carta pesta a intraprendere una lotta ardua con i rispettivi sensi di colpa. Una lotta che fa perno sulla rabbia latente che alberga imperitura sotto l’epidermide della provincia americana più reazionaria, una rabbia che se, da un lato, interviene a generare in ognuno una visione distorta dell’altro, dall’altro lato, non giunge mai al punto da impedire che accenni di disinteressata solidarietà sgorgano inaspettati. Il punto centrale di questa storia sta proprio nel fatto che non ci sono dei buoni a cui legarsi senza imbarazzi di sorta, ma nessuno è completamente cattivo. Tutti sembrano a diverso modo assoggettati ad un sistema di cose che ha disperso le coordinate dei suoi migliori valori, incupiti dalla difficoltà di venire a capo dei rispettivi fantasmi, lacerati dai rancori ma bisognosi di comprensione, infervorati dalla rabbia ma addolciti dal riconoscimento dei propri errori. In perfetto stile “coeniano”, la pratica del bene e l’esercizio del male si pongono come facce di una stessa medaglia, non solo perché “filosoficamente complementari, ma perché frutto di un disegno sociale che ha subordinato l’etica da applicare al riconoscimento di ogni azione alla sua banale indifferenziazione. È cosi che il film di Martin McDonagh si muove sornione nel solco del postmoderno, legandosi nella sua maniera particolare a tutto quel (buon) cinema contemporaneo che riflette sull’irriformabilità dei (dis)valori che sorreggono l’impalcatura del sistema mondo. E lo fa attraverso dialoghi che vanno diritti al cuore delle cose, giocando a scomporre in tonalità variabili diversi generi (si va dal dramma esplicito alla dark-commedy, passando per spuzzate di thriller investigativo), portandoci a tastare con mano il labile confine che esiste tra l’agire per uno scopo e il reagire per mancanza di conoscenza, tra la rabbia incancrenita e la comprensione desiderata. Per una messinscena che vive delle caratterizzazioni sfaccettate dei suoi protagonisti, che allarga o restringe l’angolo di visuale a seconda di se si vuole porre l’attenzione sul male alimentato dalla precarietà esistenziale di ogni singolo protagonista, o inserire quel male nel più ampio e naturale rapporto di causa effetto, quello che ad ogni azione fa corrispondere una reazione uguale e contraria. Una scelta stilistica precisa che (a mio avviso) è servita a giustificare l’andamento narrativo, che passa dall’esibizione esplicita della violenza (splatter) e momenti di ricercato riposo del corpo. Il fatto che i rancori radicati si prosciugano nell’accettazione ineludibile del proprio destino, che il senso di giustizia si risolva in una complicità ritrovata. La banalità appunto che, legandosi agl’imperscrutabili percorsi del caso (ancora i Coen), immobilizza le persone facendole rimanere sempre al punto di partenza, dando alle loro azioni un indirizzo disordinato ma senza farli giungere mai fino in fondo (come ci suggerisce il finale aperto).
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, è un film ben scritto, ben diretto e ben intrepretato, un’opera di grande solidità narrativa su cui svetta (per distacco) la figura accigliata di Frances McDormand, una Marge Gunderson (da “Fargo”) inselvachita negli anni dall’incedere indisturbato della stupidità umana. Grande film.
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