Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
Un film cattivo, tanto cattivo, dove il sarcasmo la fa da padrona e le battute acide fanno ridere non solo sanamente ma anche con soddisfatta malizia. Si sogghigna con perfidia insomma, lasciando la bocca buona e con la voglia di ricominciare a vederlo. E quando un film lascia queste sensazioni vuol dire che ha fatto centro.
Martin McDonagh (lo ricordate il suo sorprendente In Bruges - La coscienza dell'assassino?) quando si è seduto al tavolo per scrivere questo film ha preso di peso il cinema dei maledetti fratelli Coen e se lo è modellato a suo gusto per il suo soggetto. Ma non tutto il contenuto e le loro idee geniali e innovative, no, solo la parte peggiore. Perché questo magnifico film rappresenta solo la parte “peggiore” del loro cinema, nel senso del peggio come il meglio possibile di Ethan e Joel, che hanno dissacrato tutti i generi così come erano concepiti fino all’epoca a loro preesistente. Ovviamente ha completato l’operazione rubando anche la presenza artistica di Frances McDormand, cioè di quell’attrice che soprattutto in Fargo era riuscita ad esprimersi al meglio e che forse in questa occasione si è perfino superata. A dirla meglio è avvenuta una riuscita osmosi tra l’arte coeniana e il suo In Bruges da cui si è portato dietro tutta la cattiveria, tutta l’acidità di quella pellicola che già di per sé era un incrocio di razze: un thriller demenziale e una commedia nerissima.
Anche in questa occasione il regista ripete l’alchimia tra i due generi, partendo da un terribile atto criminale commesso in una sperduta cittadina del Midwest, Ebbing: lo stupro e l’omicidio di una giovane ragazza rimasti impuniti da ben otto mesi in quanto le forze dell’ordine locali hanno pressoché rinunciato alle indagini non avendo alcun indizio valido nelle mani. Un film drammatico, quindi? Neanche per sogno, non è nell’ordine delle idee di Martin McDonagh seguire un filone del genere. Il personaggio destabilizzante in una qualsiasi cittadina immersa nei boschi di un qualsiasi stato centrale statunitense è la mamma della ragazza, Mildred Hayes, la quale vista la evidente inoperosità dei poliziotti decide di dare uno scossone alla situazione. Anzi molto più di uno scossone, quando lei decide di provocare l’ambiente annoiato e pigro di quella cittadina affittando i tre cartelloni che sono fuori città lungo una strada, la Drinkwater Road, “dove passa solo chi si è perso o è idiota”, come dice il giovanotto titolare della ditta pubblicitaria proprietaria delle tre insegne. E lì ci piazza tre frasi così provocatorie che diventa un caso che va oltre i confini della provincia:
-Violentata mentre moriva
-Ancora nessun arresto?
-Come mai, sceriffo Willoughby?
Se fino ad allora la vita si trascinava stancamente Mildred colpisce nel segno e il castello di carta costruito sull’inerzia della polizia crolla come spazzato da un uragano. Un uragano con tanto di nome e cognome, Mildred Hayes, un caratteraccio scontroso e indipendente, un ex marito che l’ha mollata per una sbarbatella e una ferrea determinazione che solo una donna volitiva, arrabbiata e spazientita può avere. Era meglio non farla inquietare e il capo della polizia Willoughby se ne rende conto tardi, ammettendo tacitamente le inadempienze inammissibili. Diventa duro cercare di fermare questa donna disposta a tutto! La domanda che ci si pone è se lei cerca giustizia, come afferma, oppure una sana e compulsiva vendetta. Ecco: Lady Vendetta!
Enorme la performance di Frances McDormand, sicuramente la prova migliore della sua vita, persino superiore a quella nel mitico Fargo dove era la sua semplicità a farla da padrona in un racconto bislacco. Qui non c’è nulla di semplice e ordinario: da un viso tirato e duro come la pietra occhiatacce che fulminano, piccole smorfie, alzate di sopracciglia, frasi sparate come colpi di fucile, abbigliamento che non ha nulla di femminile (una tuta blu da operaia che la dice lunga su come ha tirato avanti nella vita senza aspettarsi nulla da nessuno), postura e andatura che non danno scampo a chi incontra. Come un novello “cavaliere pallido” e senza nome, anche se quella strana camminata ricorda altri mitici attori del western (John Wayne?). Una Frances McDormand spettacolare che si ricorderà a lungo, anche perché – e qui si arriva all’altra protagonista assoluta del film – la magistrale sceneggiatura scritta dallo stesso regista sembra (ed è) cucita addosso all’attrice, pensata per lei e per nessun’altra donna al mondo. Qualunque altra attrice ne avrebbe fatto una figura diversa ma mai avrebbe potuto eguagliarla. Una sceneggiatura, quindi, che strega come un’opera d’arte, che evita i rischiosi tranelli di ovvietà in una storia che poteva fornire pericolose buche in cui cadere, che fa ridere e spaventare, che a volte rallenta giudiziosamente e altre volte pare porti dritto all’inferno. Un encomio meritato per Martin McDonagh.
Ma è tutto il cast che è notevole, composto da nomi eccellenti che completano degnamente il quadro, a cominciare da Sam Rockwell che finalmente ha un ruolo decisivo dai tempi del bellissimo Moon e quindi ha l’occasione per mostrare la sua maturità di attore; da notare che è in scena quasi quanto la McDormand ed è giusto e sacrosanto considerarlo un vero co-protagonista e il finale malinconico e senza certezze assolute lo dimostra. Il loro due personaggi, benché si combattano sin dal primo istante e non si sopportino vicendevolmente, sono complementari e nel finale addirittura alleati. E poi continuando da Woody Harrelson, ormai il miglior poliziotto che si possa vedere sugli schermi, piccoli o grandi (rif. True Detective), ora duro policeman, ora umano padre di famiglia; Lucas Hedges, reduce dagli applauditi Manchester by the Sea e Lady Bird; una Abbie Cornish in sottotono ed infine un micidiale Peter Dinklage la cui particolare presenza dà la possibilità a battute velenose e scorrettissime, già come era successo in In Bruges. Un cast insomma che ne bastava la metà per girare due film.
Un film cattivo, tanto cattivo, dove il sarcasmo la fa da padrona e le battute acide fanno ridere non solo sanamente ma anche con soddisfatta malizia. Si sogghigna con perfidia insomma, lasciando la bocca buona e con la voglia di ricominciare a vederlo. E quando un film lascia queste sensazioni vuol dire che ha fatto centro. E i quattro Golden Globe sono solo un antipasto per la notte dorata degli Oscar.
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