Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
Giunto al terzo lungometraggio, Martin McDonagh ha trovato la quadratura del cerchio. Si addentra con sicurezza nel solco di un'ironia nera come la pece e lancia una distesa sconfinata di dialoghi lussureggianti, ma anche il plot ha tutte le motivazioni del caso, affondando le radici nell'abulia della desolata provincia americana. Una leccornia.
Venezia 74 – Concorso ufficiale.
Una madre è disposta a tutto pur di offrire il meglio ai propri figli, ma può andare anche oltre quando si tratta di cercare giustizia per l’assassinio di uno di loro. In una circostanza del genere, c’è chi si lascia andare allo sconforto e chi - pur soffrendo un dolore lacerante - acquisisce una forza d’animo tale da consentirle di moltiplicare le sue energie e prepararsi a una lunga e impervia lotta, perché per capire occorre del tempo e a volte una risposta nemmeno esiste.
Questo è quanto avviene a Mildred Hayes, interpretata dalla combattiva Frances McDormand, una tra le tante reminescenze estrapolate dal cinema dei fratelli Coen, con una traccia che va ben oltre la ricerca di un colpevole, grazie a un taglio gergale degno di comparire tra i più fulgidi esemplari di dark humour e a un tripudio di comportamenti rigorosamente politically uncorrect. Affondi imprescindibili, anche perché sulle istituzioni, e tanto più sulle tante persone prive di comprensione che affollano le strade, ci sarebbe molto da ridire.
Sono trascorsi alcuni mesi da quando Mildred Hayes (Frances McDormand) ha subito la perdita della figlia, stuprata e successivamente bruciata viva. Le indagini condotte dallo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson) e dal suo braccio destro Jason Dixon (Sam Rockwell) non hanno prodotto frutto alcuno, tanto che la donna fa coincidere il suo ritorno nel piccolo centro di Ebbing con un’altisonante affissione pubblicitaria, con la volontà di richiamare l’attenzione generale, soprattutto per via di toni decisamente accesi.
La sua insistenza irrita la polizia, accusata di non impegnarsi come il caso richiederebbe, e in paese sembra dare fastidio quasi a tutti. Stando così le cose, il suo scontro con gran parte della comunità, compreso il suo ex marito Charlie (John Hawkes), non può che ingigantirsi - giorno dopo giorno - generando nuove ferite, arrivando a smuovere qualche coscienza. Anche tra le più insospettabili.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è il terzo lungometraggio di Martin McDonagh e potrebbe essere il definitivo trampolino di lancio per l’autore britannico, che nel 2008 aveva già convinto tutti con In Bruges – La coscienza dell’assassino (mentre il successivo 7 psicopatici è stato un mezzo passo indietro).
Nove anni dopo, la ciambella gli è uscita nuovamente con il buco. Il suo operato è brillante in tutte le sue diramazioni, a cominciare dalla sceneggiatura, uno spartito scoppiettante, senza note realmente stonate e portato per sua naturale composizione a produrre una serie continuativa di confronti incendiari. Ne consegue una miccia perennemente accesa, che coinvolge un importante quantitativo di personaggi, regalando a ognuno di loro (almeno) un momento di gloria, seguendo l’imprinting della migliore scuola corale.
A questa peculiarità verticale (singoli incontri a cascata), segue lo svolgimento orizzontale della trama vera e propria, che riesce a essere continuativamente sorprendente con una facilità disarmante, a volte eccedendo, ma sempre a fin di bene (equilibrio della pellicola), d’altronde, tra uomini gettati nel vuoto dalla finestra, un monologo che riduce in poltiglia il parroco locale, centrali della polizia in fiamme, suggerimenti che sembrano più che altro minacce, nani - il mitico Peter Dinklage - con la vena da latin lover ed elementi esterni che sembrano intoccabili, l’andamento non offre mai il fianco all'impasse.
Questa scrittura - tanto abbondante quanto puntuale - esalta un cast assortito, zeppo di volti intriganti, perfetti per abitare una piccola comunità ricolma di personalità scarsamente inclini a starsene buone al proprio posto.
Frances McDormand risponde presente di fronte a una richiesta di temperamento che non prevede addomesticamenti per abbracciare un volto che emerga dal basso dei sopraffatti sistematici, facendo ricorso a un’espressività variopinta e smorfie coloritamente off, Woody Harrelson regge il tumultuoso confronto diretto avvalendosi di un personaggio che racchiude in sé inclinazioni tanto aspre quanto umanamente impegnative e Sam Rockwell è una canaglia - per niente adorabile - quando è il momento di lanciare schegge di follia, così come è capace di trasformarsi a 360° quando arriva la grande occasione per trasformarsi in tutt'altro. Per tutti e tre, non ci sarebbe nulla di cui stupirsi qualora arrivassero premi importanti nei prossimi mesi, mentre il resto del cast è penetrante, potendo contare su un esuberante Peter Dinklage, una provata Abbie Cornish, Caleb Landry Jones in versione bersaglio per chi intorno al suo personaggio non vuole sentire ragioni e, per chiudere, il solito carattere poco raccomandabile di John Hawkes.
Questo pregevole lavoro d’insieme rientra senza tante paturnie tra i migliori risultati prodotti dai casting negli ultimi anni, occupando una posizione privilegiata tra le tante qualità che appartengono alla pellicola.
Tra queste, vanno ancora menzionati alcuni concetti astratti, per cui un paio di forzature evidenti non fanno altro che rientrare nella voluta logica dell’irrazionalità che ammorba il sistema sociale, in quel vano portaoggetti che non può contenere tutto, perché alcune cose non ci sono date di sapere e anche quando le certezze appaiono solide, chissà che qualcuno dai piani superiori non ci metta lo zampino con (presunte) prove incontrovertibili.
In virtù anche di alcune finezze, come la dicotomia direzionale tra l’inizio e il finale - stessa strada, senso di marcia opposto, obiettivo (forse) uguale -, quei dettagli lanciati nel maremagnum della dialettica e poi ripresi, tra chiacchiere da bar e le seconde occasioni, che anche se non vanno in porto valgono il prezzo dell’impegno, Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha tutte le carte in regola per rientrare tra i film dell’anno e anche qualora non vi riuscisse in fase di concorsi e premi, nessuno potrà togliergli i suoi magnifici rimbalzi di parole, quei calembour - così estasiatamente borderline eppure sempre drammaticamente congrui - che solo una penna spigliata, sapiente e tagliente può attivare, personaggi che vivono di luce propria e quella capacità di mettersi subito in moto e di non fermarsi mai, nemmeno quando è il turno della scritta The end (senza l’obbligo di aggiungere un happy davanti).
Corrosivo nelle viscere, sguinzagliato ma altrettanto organizzato, adorando divagare con le parole, ma anche legato ai valori della vita reale che uccide ogni senso scatenando l'astio della plebe, confermandosi privo di smussature, fino all’ultimo fotogramma.
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