Regia di Andres Muschietti vedi scheda film
Tommy Lee Wallace 2.0 (insomma: galleggia).
“It” di Stephen King è materia consolidata, un mastodontico testo fondativo, postmodernamente mitopoietico, e per (ri)metterlo in scena non occorre stravolgerlo né, al contrario, riproporlo pedissequamente quanto, piuttosto, dotarlo - “semplicemente” - di una struttura, ebbene sì, cinematografica (e, a proposito di Cinema, il chilogrammo abbondante di cellulosa delle 1200 pagine del romanzo avrebbe meritato una trasposizione seriale: troppi inconsapevoli jump-cut e troppe involontarie ellissi che tali non sono, ma buchi e vuoti) che sappia ricrearlo stilisticamente -{qualche lampo, da rimarcare positivamente (anche se, ovviamente, già presente nel romanzo), c'è
[il prologo è lì a dimostrare che qui non si scherza, ma che la serietà di uno sguardo “realistico” da sola non basti a creare arte, pur mainstream, è lo svolgimento a renderlo chiaro e lampante; la volenterosa volontariamente complice ignavia degli abitanti di (Bibbiano!!11!!) Derry, Maine (Bisognahhh parlarehhh di Bibbianohhh!!11!!) rappresentata - più che dalla quasi totale assenza diegetica attiva delle forze dell'ordine - dal volantino/manifesto dell'annuncio/segnalazione di scomparsa che ne copre un altro; l'Apocalittica Battaglia a Sassate (ma qui forse è la - mia - nostalgia a parlare...); Stanley che, mentre tutti gli altri gettano le biciclette a terra, parcheggia la sua col cavalletto; “Placebo!”],
immantinentemente anestetizzato e crapulonescamente satisfatto, però, da dosi massicce di retorica sussidiaria infilate in gola agli spettatori ingozzati con l'imbuto: pop-corn, coca-cola, jump-scare, rutto, borborigmi, pop-corn, coca-cola, jump-scare, rutto, borborigmi...}-, e di tutto ciò – salvo, come detto, a tratti – nel film preso in consegna e diretto come sua opera seconda, dopo l'altrettanto non memorabile “Mama”, da Andrés Muschietti
[che ha, con l'insipido Gary Dauberman, riscritto – ammorbidito e censurato (e non mi riferisco alla giustamente infilmabile scena di sesso adolescenziale atta a restituire coerenza al ka-tet venuto così a mancare e quindi a non fungere da tratto d'unione tra gli anni '50/'80 e gli '80/'10, qui trasformata e neutralizzata in un bacio a stampo alla “Bella Addormentata”, un momento che non si può definire completamente sbagliato per la sua natura di ripiego, e nemmeno, dopotutto, per com'è stato realizzato, inserito ed utilizzato), pre-masticato e pre-digerito con lo sguardo coloniale para-hollywoodiano (New Line + Warner) – l'originale sceneggiatura (che già prevedeva la suddivisione in due capitoli disgiunti temporalmente, al contrario di com'è sviluppato il romanzo che intreccia le due epoche storiche in cui è ambientato) di Cary Joji Fukunaga (“Sin Nombre”, “Jane Eyre”, “True Detective”, “Beasts of No Nation”, “the Alienist”, “Maniac” e il prossimo “Bond #25”) e Chase Palmer (il prossimo “Naked Singularity” con Bill Skarsgård) - a sua volta sorta sulle ceneri di un primo trattamento a firma David Kajganich - prima di darla in pasto, così rimessa in scena, al pubblico atavicamente affamato di sempliciotta ingenua innocenza proprio come PennyWise...],
non vi è traccia, o quasi (siamo quindi e perciò dalle parti del precedente ad opera di - se dite “del carpenteriano” v’affogo nella vostra stessa insipienza - Tommy Lee Wallace), e quel poco che traspare è stemperato nelle regole blockbusterose del genere, e a latitare è proprio quella “Gustosa, gustosa, bellissima paura!”
Tra il gruppo di giovani attori composto da Jaeden Martell (Bill; “St. Vincent”, “MidNight Special”, “the Book of Henry”), Finn Wolfhard (Richie; “Stranger Things”, “the Goldfinch”), Wyatt Oleff (Stanley), Jeremy Ray Taylor (Ben) e Chosen Jacobs (Mike) spiccano Sophia Lillis (Bev; “the Lipstick Stain”, “Sharp Objects”) e soprattutto Jack Dylan Grazer (Eddie).
Chiudono il cast Bill Skarsgård (PennyWise; “Atomic Blonde” e il prossimo “Naked Singularity” di Chase Palmer), con una buona prova convincente, Nicholas Hamilton (Henry; “Captain Fantastic”), Stephen Bogaert (il padre di Bev; “American Psycho”), Stuart Hughes (il padre di Henry; “the Drawer Boy”). E, direttamente dal già citato esordio di Andy Muschietti, “Mama”, messa qui a rivelare a Eddie la natura del placebo [e a firmargli (“Lo-s/v-er”) l'ingessatura al braccio], Megan Charpentier.
Fotografia del parkchanwookiano (e si vede, ma non basta) Chung-hoon Chung. Montaggio di Jason Ballantine (facente parte di un trio per “the Great Gatsby” e a raccogliere i ritagli caduti sul pavimento nell'editing room di Margaret Sixel per “Mad Max: Fury Road”). Musiche di Benjamin Wallfisch (“Dear Wendy”, "A Cure for WellNess" e “Blade Runner 2049”, per il quale, assieme al mestamente mefitico e roboantemente bolso Hans Zimmer, ha sostituito l'incompleto lavoro del molto migliore e troppo precocemente - necessaria duplice ridondanza di quantificatore più comparativo - resosi defunto Jóhann Jóhannsson di "Prisoners", "Sicario", "Arrival", "Mother" e "Mandy": scusate la digressione, ma non avevo nient'e null'altro da dire su "It - Chapter One").
(**¾) * * *
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Addenda/Postilla.
A proposito di galleggianti Pagliacci affioranti dalle Fogne...
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta