Regia di Andres Muschietti vedi scheda film
L’estate per Stephen King e per i suoi protagonisti bambini, per quelli, in particolare, che si affacciano al tormentato ed insieme estatico universo dell’adolescenza, è un luogo magico sospeso nel tempo, un momento di crescita, di autentica condivisione e cementificazione degli incontri spesso forzatamente amicali che avvengono sui banchi di scuola; è la libertà ad altezza di fanciullo, la fuga autorizzata dai rituali imposti dal laborioso anno scolastico con le sue regole, i suoi impegni quotidiani; è ritornare a immergersi nella natura, a tuffarsi in mutanda da vertiginose alture, ad esplorare con spirito avventuroso, a correre in bici a perdifiato, a farsi scaldare la pelle candida dal sole bollente.
Così è stato nel romanzo breve Stand By me e, così, in quello fiume IT.
Entrambi tradotti su pellicola, entrambi entrati nell’immaginario comune di più generazioni, segnandolo profondamente.
Adesso IT, dopo la destinazione televisiva dell’omonima miniserie firmata Tommy Lee Wallace (lo stesso dell’apocrifo e ancora inquietante Halloween III) fa il suo ingresso sul grande schermo in una veste nuova, rinnovata.
Un adattamento-remake che solleva non poche perplessità, soprattutto da parte di chi, non più giovanissimo, è cresciuto sfogliando le bellissime pagine del romanzo e/o cullandosi nel mito (o nell’incubo) del clown Pennywise, che da quelle pagine prende vita per incarnarsi nell’indimenticabile Tim Curry in occasione della prima trasposizione targata 1990.
Si potrebbe cominciare criticando negativamente la scelta di aver ridisegnato la figura del clown insistendo sul suo aspetto maligno che vien subito allo scoperto: non ci troviamo più di fronte al canonico pagliaccio da circo, con quei larghi pantaloni di un giallo acceso e gli scarponi giganteschi a rendergli goffa l’andatura, con quel sorriso colorato affabile e rassicurante; il classico amico dei più piccoli cui dona in segno d’affetto e complicità un palloncino rosso, per svelare, solo successivamente, la sua natura malvagia, l’orrore nero nascosto dietro il viso pasticciato dal buffo naso (g)rosso.
Ma riflettendoci su, è veramente una scelta sconsiderata intervenire per modificare la nostra visione condivisa (e marchiata a fuoco) della figura del clown? Che sicuramente salta a piè pari, bypassando senza troppi riguardi, quel modo sublime di illustrare i fondamenti della paura e i meccanismi che la governano da parte del Re del brivido come pochi sono capaci di fare e che, per quanti difetti vogliam trovarci, nella miniserie tv venivano rispettati ed efficacemente resi.
Tant’è che oggi il remake ha ragion di essere per quel successo popolare-planetario che ha finito per ottenere un piccolo adattamento su cui, forse, non si volle credere fino in fondo.
Il Pennywise impersonato dal giovane Bill Skarsgård è privo dell'aura di ambigua normalità che da sola riusciva a terrorizzare; è perennemente maligno, il ghigno malefico lo ha stampato in faccia, si fa minaccioso all’istante, non ha bisogno di ingraziarsi la fiducia dei bimbi che vuol attirare a sé, non fa troppa fatica a recitare la parte del pagliaccio buono nemmeno quando appare al piccolo Georgie nelle fogne sotto il sinistro zoccolo del marciapiede dove è precipitata la barchetta di carta trascinata dalla pioggia.
Parte all’attacco furente, dritto sulla preda; a dire il vero, una punta di spavento la arreca anche agli occhi più navigati, come dimostra la pregevolissima sequenza nella stanza delle diapositive.
Non gli occorre ordire nessun inganno, non necessita di ricreare quel senso tutto infantile della meraviglia e dell’incanto funzionali al suo scopo sanguinario. I ragazzi sono consapevoli fin da subito della sua malvagità.
A questo punto si è portati a pensare che il nuovo IT, al di là della tendenza ad inseguire schemi e forme di una paura che oggi fa presa al cinema, nasca da una riflessione a monte ragionata che, francamente, non può essere ignorata e che spezzerebbe più di una lancia a favore del film di Muschietti.
IT (2017) è ambientato negli anni ’80 invece dei ’60 (come nel romanzo e nella miniserie) e gli inserti metatestuali che non facciamo fatica a riconoscere, facendoci affettuosamente sorridere per la capacità istantanea di riportarci o almeno riportare indietro a quegli anni la generazione dei 35/40enni odierni, vogliono essere un chiaro segno di come i fatti narrati siano spostati in avanti nella storia e, quindi, più vicini alla nostra contemporaneità, al nostro modo di concepire e guardare il mondo, di vivere, comportarci, parlare, pensare, per quanto ci siano delle situazioni che il tempo, il susseguirsi delle epoche non potranno mai cambiare.
Questa versione aggiornata di IT ha il merito di aver saputo leggere e traferire in pellicola i cambiamenti culturali e di costume attraversati dalla nostra società, senza però strafare e deformare, rendendola irriconoscibile, la visione originaria della Derry e dei suoi abitanti come l'abbiamo conosciuta, interpretando -in chiave horror- le tendenze deteriori del nostro tempo, su tutte la mancanza d’immaginazione, o perlomeno la perdita di gran parte di essa, che invece costituiva la centralità di intere giornate per i tanti ragazzini di una volta.
Il film ne ha intercettato l’assenza, il disincanto spoetizzante e, perciò, l’incapacità dei suoi protagonisti di proiettare sul mondo esterno, su Pennywise stesso quella patina di meraviglioso stupore fanciullo non povera di ingenuità e di purezza. Non ci sono storie da inventare e da ascoltare (la figura del bimbo futuro scrittore è qui dannatamente assente), non c’è quel comune universo infantile popolato di personaggi fantastici che lasciano galoppare l’immaginazione, proiettando la mente in dimensioni altre. Non c’è il legame sentimentale che ogni ragazzino intesse con i propri oggetti fino a confidare in essi, fino a considerarli speciali quando non addirittura salvifici. Non una parola sulla bici ribattezzata Silver se non un superficiale, inerte accenno visivo e non possiamo non notare la mancanza della fionda, tratto distintivo della fanciulla del gruppo.
Ecco perché i ragazzini vedono il clown da subito per quello che è. E Pennywise si adegua alla loro scabra visione delle cose. Che poi faccia leva sulle paure individuali è d’obbligo per qualsiasi uomo nero della letteratura scritta e filmica.
Inoltre, come per Blade Runner 2049 anche l’IT di Muschietti non può essere esente dal discorso sulla riproposizione, riveduta ed aggiornata non solo ai gusti ma alle nuove tecnologie applicate al cinema, di (cari) immaginari preesistenti. La scena del bagno imbrattato di sangue è, per esempio, debitrice di A Nightmare on Elm Street (ma rivedendo la miniserie si nota quanto la saga con Freddy Krueger sia stata determinante anche, e soprattutto, allora per allestire le apparizioni del pagliaccio). Oppure, il look del new-clown più di rimandare a quello del pagliaccio burlone riporta alla mente le antiche, pregiate e macabre bambole di porcellana come l’infernale contemporanea Annabelle. O il momento del tuffo nel fiume, un classico nel cinema per ragazzi. O ancora, il lebbroso che infesta la visione del bimbo ipocondriaco è tanto simile a uno degli innumerevoli zombi che popolano l'universo distopico di The Walking Dead.
L’effettistica, la fotografia, la cura formale (di cui si fregia la direzione di Andrès Muschietti, già dietro la mdp per La madre) impreziosiscono di molto questo lavoro di rivisitazione che, in fin dei conti, risulta apprezzabile e in grado di possedere una suo perché, al di là di soluzioni registico-narrative non proprio felicissime (le singole apparizioni di Pennywise ai ragazzini, la morte del teppistello) per non parlare della visione di papà King largamente accantonata.
E in trepidante (?) attesa del capitolo secondo (Chapter Two) in programma per il 2019 (con cast adulto sulla cui scelta definitiva già si vocifera) -giusto per rimpinzare il portafoglio degli addetti ai lavori e alleggerire il nostro- una domanda sorge spontanea: riuscirà il clown Skarsgård a scalzare dalla memoria collettiva il buon vecchio clown Curry?
Ma poi, i bambini e gli adolescenti di oggi, ancora e per davvero, considerano il pagliaccio una figura capace di mettere i brividi o è anch’essa un’icona orrorifera oramai sbiadita, superata, magari pure risibile, dimenticata in un angolo in soffitta per lasciare spazio a paure più concrete e sempre più individuali, orfane di un immaginario comune, di quel bagaglio fantasmagorico da salvaguardare come il più grande tesoro in nostro possesso?
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