Regia di Susanna Nicchiarelli vedi scheda film
Have someone else's
Will as your own
You are beautiful
You are alone
(Afraid, Nico, da 'Desertshore')
"Sono stata in cima, e sono stata nel fondo. Non c'è niente in nessuno dei due posti"
Janitor of Lunacy aveva già documentato la poesia e il vuoto della sequenza più bella de L'eau froide di Olivier Assayas (1994), e adesso torna nelle corde vocali di Trine Dyrholm, che al pari di Susanna Nicchiarelli realizza un'opera di profonda e non arida filologia. Infatti la sua voce riproduce al meglio il cupo e commovente canto della tedesca Christa Paffgen, così come la Nicchiarelli cerca di riprodurre al meglio il rincorrersi di due atmosfere, di due periodi storici, gli ultimi tre anni di vita di Nico (1986-1988) e l'epoca "d'oro" (gli anni Sessanta), cioè a dire il periodo dei Velvet Underground e della factory warholiana, a loro volta documentato dalle avanguardistiche visioni di Jonas Mekas. E' proprio con queste sequenze che, nel raccontare i ricordi di Nico, la Nicchiarelli tenta di trovare un punto d'incontro, emulando in alcuni momenti Mekas in estetica, colore e formato.
Prendendo subito le distanze dal genere documentaristico o da qualsiasi suo simile, il film chiude al più presto i dovuti riferimenti storiografici inerenti il brutto rapporto della cantante col gruppo capeggiato da Lou Reed, e tenta invece di raccontare il personaggio di Nico a partire dalla sua produzione assolo post-Velvet, quella di Marble Index (1968) e di Desertshore (1970). E' d'altronde la voce di Nico/Dyrholm a connettere le sequenze di Nico, 1988, in un montaggio che pare più emozionale che barbosamente calligrafico. Il film è ambientato per lo più durante il tour europeo della cantante e del suo team, a ricordare forse che è su profonde radici europee che si basa la musica di Christa: solo nella mezz'ora di Desertshore si sentono l'inglese, il francese e il tedesco. Il film della Nicchiarelli però non riesce a primeggiare su quei punti in cui normalmente falliscono i biopic: come avviene spesso infatti l'Arte dell'artista raccontato/a viene data quasi per scontata, come se i motori di qualsiasi produzione artistica dovessero trovarsi, sempre e in ogni caso (vorrebbero dirci i biopic), in eventi e situazioni narrativamente riproducibili. Siamo insomma lontani dalle vette di Turner di Mike Leigh, volendo rimanere in ambito di fiction biografica; ma siamo lontani anche dai doc musical di Grant Gee, dove anche senza fiction l'esperienza era sensorialmente più immersiva e profonda. Così come il resto, l'operazione filologica della Nicchiarelli, intellettualmente accurata, si riduce all'aneddotico (non basta rivelare da dove viene il titolo del secondo album solista di Nico, Marble Index). E quando tenta la suddetta immersione sensoriale, sfocia nel paratelevisivo (i movimenti rotativi di camera durante l'esibizione di My Heart Is Empty), senza sfruttare il fatto che durante il film Nico va wendersianamente registrando suoni con registratore e microfono alla ricerca del "suono della sconfitta": una semplice trovata narrativa.
Se dunque la mise en scène di una vita tipicamente maledetta (eroina, metadone, qualche avventura sentimentale) è delicata e scontata solo in certi effetti ad hoc, e lo sforzo della ricerca filologica va di certo premiato, Nico, 1988 non scava mai davvero nel profondo, rischiando di fare della produzione più sentita e dolorosa di Christa Paffgen un semplice simulacro, ciò di cui Nico aveva più paura.
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