Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Torna il più inclassificabile dei registi giapponesi, con un adattamento di un celebre manga di Hiroaki Samura edito dal 1993 al 2012, per un totale di 30 tankobon (volumetti). Miike, come noto, non è di certo nuovo a simili imprese (ci aveva già provato, con alterne fortune, con Ichi the Killer e, più recentemente, As The Gods Will e Jojo’s Bizarre Adventure: Diamond is Unbreakable Chapter I), ma questa sua nuova uscita si può tranquillamente annoverare tra le peggiori.
Ciò che si vede sullo schermo non è altro che un’insensata orgia di violenza, sangue a fiotti, sbudellamenti e sventramenti, e il film è solo sfiancante, nonché terribilmente ripetitivo come il peggiore dei videogame (si apre e SPOILER: si chiude con una carneficina FINE SPOILER, mentre nel mezzo si succedono stancamente una serie che pare quasi infinita di duelli a spade sguainate più o meno improbabili, duelli in cui i vari personaggi si lanciano di punto in bianco senza alcuna precedente graduale costruzione della suspense, non riuscendo a suscitare, per diretta conseguenza, il ben che minimo interesse).
Va da sé che condensare in un unico lungometraggio un manga di 30 volumi non era impresa facile, ma innanzitutto non era neanche impresa auspicabile o auspicata da chicchessia, e in secondo luogo una volta accettata comunque una simile (futile) sfida si poteva pur sempre tentare di offrire un anche solo minimamente più solido appiglio allo spettatore digiuno dell’opera originale per comprendere meglio gli eventi narrati (ammesso che qualcosa da comprendere ci sia) e farsi dunque maggiormente coinvolgere dalla trama che invece, così com’è stata concepita e poi sviluppata in sceneggiatura, risulta solo ed esclusivamente sfibrante, monotona e soporifera.
Senza contare, poi, che l’adattare un manga in un film live-action lascia sempre le porte spalancate all’irruzione del ridicolo involontario (tra l'altro, per nulla simpatico o intrigante vista la suprema monotonia del tutto), cosa che difatti puntualmente accade in questo nuovo film dell’iper-prolifico regista nipponico (tra personaggi dalle pettinature assurde e armamentari improponibili [comprese asce inamovibili all’occorrenza prontamente brandite con la stessa nonchalance con cui si agitano al vento fragili e lievi fuscelli]).
In più, il tanto decantato ed esuberante e stupefacente talento visivo di Miike si dimostra di difficile individuazione, mentre la bellezza estetica di taluni stralci si deve quasi esclusivamente all’ottima fotografia di Kita (che in particolare con il bianco e nero fa un lavoro d’eccezione).
Arrivare alla conclusione delle due ore e venti di proiezione, pertanto, si configura quasi come un esercizio in autolesionismo, e rintracciare nel mediocre marasma di questo L’immortale anche solo un’altra nota positiva al di fuori della già citata fotografia e delle buone interpretazioni di taluni attori appare arduo se non impossibile.
Curiosamente presentato al Festival di Cannes e altrettanto curiosamente apprezzato, il 100° film di Miike (sì, lo ripeto per chi non lo sapesse: avete letto bene, 100°), non è altro che una cialtronata, quasi una barzelletta, alla pari di tanti altre sue opere, che comunque non si guadagna alcun successo di pubblico e in gran parte del mondo viene distribuito direttamente su Netflix (Italia compresa).
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