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Sei gradi di separazione

Regia di Fred Schepisi vedi scheda film

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La recensione su Sei gradi di separazione

di LorCio
8 stelle

Basato sulla teoria del sociologo Stanley Milgram secondo cui ogni individuo è legato ad un altro sulla faccia della terra da sei persone, 6 gradi di separazione, prima di essere un film seminale e fondamentale nell’intero decennio del cinema americano, è un testo teatrale di clamorosa impeccabilità. Scritto da dio dal drammaturgo John Guare, questo film dall’impostazione certamente riconducibile alle tavole del palcoscenico si adatta perfettamente alla dimensione cinematografica grazie ad alcune determinate caratteristiche. Innanzitutto onore al regista Fred Schepisi – che in un’opera del genere poteva risultare subalterno al carismatico sceneggiatore – a cui va riconosciuto più di un merito, dona ritmo e vivacità alla narrazione a quadri della storia, architettata secondo flashback inseriti in un montaggio (eccellente Peter Honess) concettuale e funzionale alle economie intellettive dei suoi personaggi. Così come gli allori vanno posti sul capo dello stesso Guare, che è riuscito a rendere filmica la pièce, contaminando la storia con citazioni colte e rimandi arguti, dall’indimenticabile monologo sull’immoralità de Il giovane Holden di Salinger (“la gente non si accorge mai di nulla”, che poi è un po’ la frase simbolo dell’intero film) alle speculazioni pseudofilosofiche sul concetto di fortuna in Freud, dagli artisti segnalati dai protagonisti mercanti d’arte (Cezanne, Matisse, Kandinsky, i giapponesi) fino ai richiami alle atmosfere dei romanzi di Agatha Christie.

 

Oltre ad essere una sorta di manifesto della teoria di Milgram, 6 gradi di separazione è anche un (piccolo) grande film sul fallimento della borghesia e sulla sua deriva radical-chic: l’alcool (“uno scotch!” richiede il marito, “basta che sia doppio!” rincara la moglie), il concetto di superfluo (“godo quando usi il termine superfluo”: in fondo in una società industrializzata e tecnologizzata, il mestiere dei protagonisti è quello dei mercanti del superfluo, perché l’arte è diventata superflua), il fascino del povero saggio che scombussola le vite piatte ed appagate esteriormente (ossia il fulcro stesso della storia), la morte della famiglia (“questo non è un complotto, è una famiglia!”; il patetico padre divorziato, truffato e disprezzato dal figlio studente), il rifiuto della verità (come dice Sydney Poiter – deus ex machina – nella sua autobiografia: “ci proteggiamo tutti dalla verità”), le cene di gala (ogni intermezzo, anche di commento – a volte si crea quasi un coro greco), i vestiti (specialmente femminili), la beneficienza (il musical di Cats,  i rapporti con l’Onu: “non si parla d’altro all’Onu, mica una può salvare il mondo tutti i giorni”). E poi i temi portati dal diverso, il nero, il povero, il ferito: il potere dell’immaginazione, donataci da Dio per rendere questo mondo sopportabile, e il valore dell’esperienza, da non ridurre ad aneddoto da tavolata con amici benestanti. Impianto tecnico di lusso, dalle musiche da camera di Jerry Goldsmith alle raffinate scenografie di Patrizia von Brandenstein e Gretchen Rau. E, last but not least, un cast in forma smagliante, dal giovane e perfetto Will Smith all’infallibile Donald Sutherland fino alla fantastica interpretazione della Stockard Channing migliore di sempre.

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