Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film
Il vero motivo per vedere questo film è Tomas Milian. Un attore, a mio avviso, molto bravo nella caratterizzazione dei propri personaggi. Qui si divide tra il doppio ruolo del Gobbo e di suo fratello Monnezza. Due figli del sottoproletariato romano che cercano di tirare avanti come meglio possono. E la cosa più bella del film è proprio in alcuni discorsi (scritti dallo stesso Milian) che hanno una carica proletaria e popolare molto forte. Mi riferisco a quello del Monnezza quando viene interrogato al commissariato e ha la visione di Cristo e a quello del Gobbo nel night club. Il resto del film, purtroppo, è roba da poco. La prima cosa che manca è una sceneggiatura che sappia sfruttare le potenzialità del genere poliziesco. Una sceneggiatura che sappia andare oltre i soliti clichè e i soliti personaggi stereotipati. Bisogna ricordare, però, che anche la Commedia dell’ Arte lavorava sui tipi fissi. Personaggi che, con minime sfumature, venivano riproposti da una commedia all’ altra. Solo che qui la cosa perde la sua magia, per diventare una sterile ripetizione di storie sempre uguali a se stesse. Un altro elemento favorevole, invece, è la musica. Sempre di tipo sperimentale e capace di creare la giusta atmosfera all’ interno del film. Il montaggio viene usato in maniera interessante solo nelle scene degli inseguimenti, dove grazie anche alla musica crea un ritmo incalzante. Il problema vero è che non c’è il coraggio di inventarsi nulla di nuovo, oltre, come ho detto, alle maschere di Tomas Milian. Uno studio a parte andrebbe fatto, poi, sui grandiosi giochi di parole che contraddistinguono il lessico del Monezza e del Gobbo. Una fine ricerca filologica, quindi, su tutti i possibili nomi che finiscono in –azzo, -ulo, -ua (per le rime con mortacci tua o sua) e così via. Personalmente i film di Tomas mi fanno ridere molto. Soprattutto per la scarsezza dei mezzi, la scarsezza delle storie e la pochezza dei contenuti. Mi fanno ridere per una trucezza che quando diventa veramente cattiva e cinica acquista senso e forse anche una carica di denuncia sociale, ma che quando si perde in se stessa raggiunge vette di idiozia quasi sublimi. Quello che mi chiedo, soprattutto per i film successivi, è con quale coraggio gli sceneggiatori firmavano le loro storie. Forse si divertivano. Forse continuavano solo a grattare il fondo della pentola. O forse avevano trovato un modo di vivere senza sgobbare troppo. Grandissime, per concludere, le due canzoni (Sora Rosa e Roma Capoccia) di Antonello Venditti che accompagnano i momenti più drammatici e significativi del film.
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