Regia di David Macián vedi scheda film
Piccolo film perché di piccola distribuzione, antidoto eccellente contro i mali del presente, va visto, incoraggiato e diffuso. Perché il re è sempre nudo.
Festival del Cinema Spagnolo
10ª edizione
a Treviso dal 29 maggio al 1 giugno 2017, presso il Cinema Edera
Presentato all'ultimo Festival del Cinema Europeo di Siviglia a novembre 2016, mostrato al festival di Tarragona REC, dove ha ricevuto il premio della giuria e del pubblico giovane, a breve La mano invisible sarà a Strasburgo al Parlamento Europeo per la tematica importante che affronta, il lavoro.
L’origine è letteraria, un romanzo/saggio pubblicato nel 2011 da Isaac Rosa, sevillano, scrittore, giornalista, classe 1974, sette romanzi in quota.
David Macián, fino a ieri giovane precario tuttofare, presente alla prima trevigiana, racconta di aver trovato il libro nella libreria in cui, appunto, faceva di tutto ed è diventato così un giovane regista alla sua opera prima.
Da un romanzo di 400 pagine al film di 90 minuti il passo non è breve. Serve una capacità non comune per trasformare in “fabbrica delle immagini” ciò che nasce come “ storia scritta”.
Innanzitutto l’irrealtà.
Siamo a Truffaut:
“ C’è una cosa che ogni regista dovrebbe capire: per ottenere il realismo all’interno dell’inquadratura prevista, bisognerà eventualmente accettare una grande irrealtà nello spazio circostante. Per esempio un primissimo piano del bacio tra due personaggi che si pensa stiano in piedi sarà forse ottenuto mettendo i due attori in ginocchio su un tavolo da cucina” (da F.Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, 1966 ).
Maciàn sa come farlo, e forse sulla sua strada anche Lars von Trier di Dogville ha lasciato il segno.
Con La mano invisible il pubblico, invisibile ma presente al punto da sentirne quasi il fiato, entra addirittura in scena nel pre-finale in un pandemonio scatenato dalla tensione crescente che ha alimentato il film fin dalla prima sequenza.
E’ la katastrofè, quella a cui l’atto del vedere che sta alla base della liturgia teatrale tende inesorabile.
A quel punto avviene l’acquisizione totale di senso, viene posto il sigillo e l’autore si ritira lasciando il suo pubblico a meditare.
Maciàn compie un passo ulteriore, passa dal teatro al cinema.
Quella “fabbrica delle immagini” che altro non è, come il grande Hitch affermava, se non il “compromesso tra l’immagine prevista e l’immagine ottenuta”, trova qui la sua formula giusta con undici attori collocati dentro uno spazio teatrale diviso virtualmente in settori.
All’interno, ogni personaggio, anonimo, svolge un compito.
Un muratore fisicamente ben piazzato fa la malta e costruisce un muretto di forati, sistemandoli con perizia l’uno sull’altro. Poi prende una gran mazza di pietra e lo butta giù. Dopodichè ne costruisce un altro.
Una ragazza che mastica compulsiva il suo chewingum assembla in catena di montaggio pezzi di oggetti misteriosi per forma e significato.
Una donna di mezza età, ingrigita dalla fatica, curva sulla macchina da cucire attacca spalline a reggiseni tutti rigorosamente uguali per colore e misura (sembrerebbe una quarta).
Un macellaio con la faccia del serial killer taglia con veemenza sospetta e coltellaccio inquietante pezzi di animali vari e li dispone in bell’ordine sul banco.
Un ragazzo di colore dall’aria malinconica e impenetrabile fa il magazziniere, carica e scarica senza posa pacchi tutti uguali sul muletto.
Un meccanico smonta e rimonta pezzi di automobile, svita bulloni, stacca una ruota, scivola sotto il motore, tira fuori un sedile, e poi ricomincia daccapo.
Una ragazza call center chiama, parte con il comunicato, si ferma a metà perché dall’altra parte le chiudono il telefono in faccia, un’altra fa interviste volanti per indagini di mercato, un ragazzo pallido non si stacca mai dal computer, pare prosciugato da sedute fiume a sistemare non sappiamo che database.
Si tratta di uno stage, un esperimento per cui persone prese dalla strada sono chiamate a lavorare di fronte ad un pubblico invisibile che guarda e giudica, rumoreggia e infine partecipa alla gran rissa.
Sono pagate, tutte vengono da lavori precedenti mal retribuiti e ormai finiti, tutte hanno accettato di buon grado, alcune perfino con entusiasmo.
Straordinaria commistione fra virtualità, rappresentazione e realtà, Maciàn fa muovere i fili da un Grande Fratello invisibile che detta le leggi regolatrici del mercato.
Dentro questo decalogo il ruolo preminente è quello del consumatore, nella fattispecie il pubblico, che pretende il prodotto migliore e più economico. Cosa che, tradotta in termini di lavoro, vuol dire aumento della produttività, ritmi frenetici e alienazione.
Si torna di passo in passo ai primordi dell’era industriale, tra sfruttamento della mano d’opera ed esplosione di fenomeni di luddismo sembra che non sia passato del tempo, nessun filosofo che aspetti al varco, non c’è ombra di sindacati all’orizzonte, il Quarto Stato non marcia più né i proletari di tutto il mondo si uniranno mai.
C’è solo Chaplin con Tempi moderni a dichiarare che nulla di nuovo è sotto il sole.
Maciàn fa un film di grande lucidità nel cogliere lo spirito dei tempi ribaltandolo in allegoria cinematografica su un set .
La mediazione arte/vita è in ottimo equilibrio, si respira l’aria del reality show, didascalie introducono a step successivi con una cronologia da Isola dei Famosi, tutto diventa spettacolo, addirittura tifo da stadio se i malumori crescono e c’è aria di rissa.
Un ohhhh di delusione se questa non scatta, un urlo di gioia se all’aria vanno gli stracci e i personaggi, ridiventati persone, scoprono che il lavoro non solo non li ha nobilitati, li ha fatti piuttosto scendere al rango più infimo dell’animalità.
Gli istinti repressi da secoli di dura lotta di grandi e piccoli uomini contro la barbarie tornano prepotentemente in superficie, razzismo, machismo, schiavismo, individualismo sfrenato, nulla manca, il contratto sociale è solo carta straccia.
Ma il "meraviglioso" spettacolo del lavoro deve continuare.
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