Regia di Tamara Drakulic vedi scheda film
Tff 34 – Concorso 34.
Riuscire a trasmettere un messaggio utilizzando meno parole possibili e facendo leva sulle immagini, comincia a non essere più una formula così rara, di conseguenza non è nemmeno più un fattore automatico tale da procurare autonomamente stupore o fascino.
Ciò è tanto più evidente quando un’opera si presenta come Vetar, arrivando a stento ai circa settanta minuti di lunghezza, prendendosi in aggiunta tutti i tempi morti possibili e immaginabili, per arrivare a esprimere un numero esiguo di concetti senza sciogliersi in scorci poetici.
Montenegro, nei pressi della foce del fiume Bojana, la sedicenne Mina (Tamara Stajic) trascorre stancamente le sue vacanze estive insieme al padre Andrej (Eroll Bilibani).
Quando s’infatua di Sasa (Darko Kastratovic), un attraente maestro di kite-surf, Mina si sente cambiare, provando nuove esigenze; il suo sviluppo emotivo non sarà tra i più delicati.
Che barba, che noia. Così come per Mina le vacanze con il padre sono soporifere, lo stesso vale per lo spettatore, posto di fronte a una pellicola povera di sostanza; mentre però qualcosa smuove l’esistenza dell’adolescente protagonista, Vetar non riesce quasi mai a scrollarsi di dosso un torpore che si accumula fin dalle prime immagini.
Le idee sono raggruppabili sulle dita di una mano, i tempi paiono clamorosamente lunghi e il paesaggio incantevole, turisticamente piuttosto noto e bisognoso di tutela; queste le caratteristiche principali che bastano per descrivere la prima opera di finzione diretta da Tamara Drakulic.
Al centro, una figlia e suo padre; lingua lunga e la voglia di crescere per lei, abitudini un po’ infantili per lui, più un terzo incomodo, che assume il fascino di una visione paradisiaca, tanto desiderata, quanto improbabile da raggiungere.
I rapporti sono basici, descritti blandamente, seguendo un passo pigro, più prossimo a essere percepito come un vezzo e una necessità di dilatare le azioni, piuttosto che apparire come una sospinta vena poetica e autoriale fuoriuscita con naturalezza.
Alla fine, rimane poco in pugno; un bello sguardo ambientale - che sembra quasi una priorità soprattutto leggendo le didascalie incastonate sui titoli di coda – e un paio di confronti dal sapore estemporaneo, elementi che da soli non possono essere sufficienti per elevare un teatrino che, nella sua unica dinamica prevista (i mutevoli sentimenti di Mina), sembra più indicato a un cortometraggio.
Per quanto volutamente minimalista, l’orizzonte rimane piuttosto limitato.
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