Regia di Fatih Akin vedi scheda film
Film di cui non sentivamo la mancanza
Torniamo ad un argomento che ci intriga spesso quando parliamo di cinema: i titoli.
L’Italia sceglie Oltre la notte e butta senza tanti riguardi una mannaia sulle implicazioni politiche e psicologiche della vicenda. Oltre la notte c’è il giorno, la luce, la resurrezione.
Se è così che va interpretato non ci siamo, e vedremo perché.
Con Aus dem Nichts, dal nulla, titolo originale (l’autore è turco naturalizzato tedesco di Amburgo) va meglio, anche se è chiaro a lui da quale nulla e verso dove si va, a noi meno.
Ma poiché non tocca allo spettatore dare titoli cerchiamo almeno di entrare dentro questo film che a Cannes ha premiato la protagonista, Diane Kruger, della cui bravura forse un giorno capiremo i connotati perché tra urla, tentativi di suicidio, stati catatonici e scatti isterici siamo forse un tantino sopra le righe. Certo è una bellezza teutonica che fa presa, e su questo non ci piove.
Il film si divide in tre capitoli, la famiglia, la giustizia, il mare.
Non se ne sentiva il bisogno, non ha l’aria di una saga epica, non ne ha il respiro, se serviva ad aiutare lo spettatore fatica inutile, è tautologico, si vede tutto benissimo da soli.
La storia
Lei, Diane Kruger/ Katja, tedesca, altissima e bellissima, sposa lui, Numan Acar /Nuri, bruna bellezza curda, ex spacciatore appena uscito di prigione e definitivamente diventato buono e bravo. Hanno un figlio, che non somiglia a nessuno dei due ma tanto saputello. Passano sette/otto anni e arriviamo al nucleo forte, l’attualità che preme, la recrudescenza del pericolo neo-nazista in Germania, la presenza di un’alta concentrazione di immigrati nel Paese, tutto spinge verso una catastrofe annunciata.
Davanti all’agenzia di non so cosa che Nuri ha aperto e dove, guarda caso, c’è anche il bambino perché la madre è andata a farsi una seduta di benessere al bagno turco con la cugina incinta, esplode una bomba artigianale, di quelle fatte in garage con chiodi, benzina e poco altro (il film ce lo spiega così bene che alla fine potrebbe farla chiunque, e infatti la farà anche lei in men che non si dica, in una stupenda isola greca immersa in un mare che è la cosa più bella del film).
Siamo al centro della storia.
Distrutta la famiglia e individuati i presunti colpevoli, una coppia neo-nazista, il processo non porta alla condanna per insufficienza di prove (le indagini, il tessuto thriller del film, il dibattito, tutto fila via come acqua che scorre, perfino il padre dell’imputato che solidarizza con la povera Katja è una figurina senza spessore).
In dubio pro reo, recita il giudice, formula che non fa una grinza ma suggerisce un’unica conclusione: la giustizia è debole.
No, la giustizia è giusta, debole è chi l’amministra, spesso, e certo lo è questo film che suggerisce conclusioni improprie.
E allora si fa da sé, e se il cattivo è un seguace di Hitler ancora meglio.
L’eroina brilla di luce propria, non ci molla per tutta la durata del film, ci chiediamo ad ogni scena cosa stia per fare di grande, di bello, di sublime, e alla fine lo fa, e per saperlo bisogna andare al cinema.
Buono a sapersi, alla fine le tornano anche le mestruazioni, l’autore ci tiene a dircelo, anzi a farcelo vedere.
Forse oltre la notte ci sarà davvero la rinascita? Chissà, ripetiamo, per saperlo bisogna andare al cinema.
Fatih Akin afferma in interviste rilasciate a destra e a manca che si è formato sui film di Costa Gavras e Monicelli e che vedere Yol di Yilmaz Guney ha fatto il resto.
Cosa direbbe Totò? Poffarbacco e perdindirindina!
E aggiunge: “Magari un film non cambierà il mondo, ma può aiutare a ricucire i conflitti. Sono convinto che la catena di dolore che crea la violenza possa essere spezzata solo dal dialogo”.
Bene, quale? Con chi? Ma con noi, inebetiti e un bel po’ annoiati in poltrona, naturalmente!
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