Regia di Fatih Akin vedi scheda film
Tre fasi della vita di una donna, che ha saputo essere moglie e madre; tre fasi della vita di una persona, che non puo' accettare il suo destino. Soprattutto, tre fasi di un film che sbanda paurosamente nel raccontare senza enfasi quanto sia impossibile vivere nei ricordi.
CANNES 70 - CONCORSO UFFICIALE
Fatih Akin sulle tracce di una vena perduta: ovvvero l'impossibilita' di ritrovare un autore.
"In the fade" - dall'originale "Aus dem Nichts", titolo piu' pertinente perche' allude al nulla in cui viene a trovarsi la protagonista, improvvisamente - ci racconta, diviso in tre capitoli ( riferiti alla famiglia, ai figli - con processo annesso - e ad un simbolico mare), il dramma di una donna che vede perdere ogni suo amato bene: il marito ed il figlioletto.
Impersonale quanto mai, Akin orienta la storia prima verso un dramma intimista - la sorprendente prima parte in cui la protagonista non sa ancora di essere tale, la migliore del film - poi la intrappola in un legal thriller, infine metabolizza l'accaduto con la vendetta cui la protagonista pare abbia diritto.
La fotografia neutra - Rainer Klaussman - e le musiche poco invadenti - Joshua Homme - sono in sintonia con l'opera ma il film crolla sul montaggio: basti pensare alla scena dell'ingresso in sala dei giudici, rallentata e spezzettata in virtu' di un imminente verdetto assurdo mentre le immagini avrebbero avuto bisogno di essere concentrate sul volto della protagonista.
Diane Kruger - un corpo splendido ma un viso non all'altezza, anche perche' imbruttito dagli eventi - e' mal diretta, lasciata spesso a delle facce inopportune e improvvise e non ha la statura per reggere - di fatto, da sola: gli altri attori sono meramente comprimari, a cominciare dall'avvocato che l'assiste, l'attore Denis Moschitto - una storia la cui successione degli eventi e' troppo rapida per essere vera.
Ma il problema non e' solo questo. Il film si apre con un piano sequenza da telecamera amatoriale - da telefonino - mostrando il matrimonio in carcere, tra decine di detenuti plaudenti, tra il (prossimo defunto) Nuri (Numan Acar), tedesco di origine turca e la tatuata Katja (Diane Kruger), per poi mostrare la coppia anni dopo, con un figlio e un'attivita' di cambia valute del primo. La giovane, dopo aver accompagnato il bimbo dal padre ed essersi regalata una sauna in compagnia della sua amica Brigit, fa ritorno al negozio: qui scopre che e' stato sventrato da una bomba. Il dramma, l'incapacita' di accettazione, le ricerche della polizia sono i passi successivi, violenti e strazianti che accompagnano i giorni della nuova, orrenda vita di Katja. In dubbio se rivolgersi all'aspetto drammatico della vicenda ed esplorare la perdita, con il dolore che l'accompagna, Akin si orienta sulla scoperta del colpevole che pare tenere in vita la donna - che ha nel frattempo pure pensato al suicidio con taglio-delle-vene-in-vasca-da-bagno - fino al giorno in cui i presunti assassini non vengono rintracciati.
Il processo, pero', ricco di troppi particolari scientifici e condito da un difensore della coppia terrorista di stampo mefistofelico (cattivo come da tempo non se ne vedevano al cinema) trova nella donna una persona di difficile attendibilita' - fa uso di cocaina ma anche di altre droghe - e i particolari sono labili, nonostante la ragazza identificata sia stata vista benissimo, prima dell'esplosione, dalla donna. La sequenza finale del processo finisce per ipotecare la terza parte del film, in cui la necessita' di vendetta diventa il tramite per la sopravvivenza della fu moglie e madre, fino all'inaspettato (ed unico colpo d'ala per un film scontato e prevedibile) colpo di scena finale.
Dalle dichiarazioni del regista, che qui e' sceneggiatore (con Hark Bohm) e produttore, apprendiamo - anche grazie ad una scritta finale - che in Germania la polizia ha sottovalutato il terrorismo neonazista, che invece sottotraccia prospera, grazie anche a gruppi come il National Socialist Underground e che per questo ha sentito necessario filmare una storia che non dimenticasse simili accaduti. Tuttavia, nel film non si avverte nessuna denuncia specifica e la sua concentrazione sul personaggio femminile sbanda piu' volte alla ricerca di uno stile che ne imita troppi (da Hitchcock a Truffaut) senza mai trovarne uno proprio. Resta ancora, in linea con Cannes 2017, la scelta di una donna quale protagonista di una verita' negata - come accadeva, con altro spirito in "A gentle creature", di Segei Loznitsa, proiettato il giorno prima - e questo conferma la tendenza a puntare su volti femminili per imprimere intensita' ed emozioni che gli attori maschili ultimamente sembrano non offrire al cinema europeo-asiatico, ma i risultati sono inferiori alle premesse.
La tiepida accoglienza del pubblico che ha affollato il Grand Theatre Lumiere conferma la generale delusione per un regista che da qualche tempo gira a vuoto.
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