Regia di Sébastien Betbeder vedi scheda film
Dopo il cortometraggio Inupiluk, del 2014 – viaggio di due cacciatori eschimesi nella capitale francese accolti da due giovani attori disoccupati, uno dei quali figlio di un francese trasferitosi in Groenlandia, il regista Sébastien Betbeder (molto attivo nell’ultimo periodo, visto al TFF anche col suo successivo Marie et les naufragés) ci offre un suo seguito che concretizza la promessa dei due giovani di far visita al padre di uno dei due nel villaggio polare di Kullorsuaq, ritrovando, oltre agli altri, anche i due cacciatori loro ospiti.
Al’interno di una comunità che vive necessariamente richiusa in se stessa, a sopravvivere con la caccia e poco altro alle mille insidie e difficoltà rappresentate da un clima rigido tra i più difficili per l’esistenza umana, i due giovani parigini imparano in qualche modo a valorizzarsi, a ritrovare la sicurezza perduta da tempo lungo anni di precariato e lavori a singhiozzo, sempre dipendenti da una indennità di disoccupazione che li rende frustrati, insicuri, incapaci di apprezzare la bellezza della vita in comunità che in quel paese tra i ghiacciai perenni si sviluppa in modo necessario e condiscendente, mentre latita e porta all’isolamento nelle metropoli ufficialmente civilizzate come potrebbe apparire Parigi.
Questa volta il formato “lungo” se da una parte sancisce la volontà di Betbeder di focalizzarsi con più attenzione sulle singole sfaccettature dei suoi due protagonisti (molto simili fisicamente, tanto da poter essere credibili come fratelli, se non ci attenessimo ai vincoli e alle caratteristiche della storia), dall’altra finisce per appesantire un po’ troppo il film che, nonostante i suoi paesaggi esclusivi e un teatro naturale da sfondo di estremo valore attrattivo, nei tempi più ridotti avrebbe giovato di maggior brio e scorrevolezza, alla pari del suo simpatico predecessore.
Fino ad arrivare ad un addio con “crepes pur tout le monde”, soluzione simpatica certo, ma anche minata da una carineria che finisce per laccare un po’ troppo un’operina che pare allungata artificiosamente per apparire un corto “allungato come il brodo”.
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