Regia di Erick Zonca vedi scheda film
L'ultimo film dell'italo-francese E.Zonca ricapitola un po' meccanicamente tutti gli stereotipi del tardo noir degli anni 2000,tentando la carta di un cinema di genere che conserva uno sguardo caustico sulla deriva etica di una società in cui il concetto stesso di famiglia sembra aver abdicato definitivamente al proprio ruolo pedagogico e affettivo
Il capitano di polizia Francois Visconti è un laido alcolista, abbandonato dalla moglie e con un figlio adolescente invischiato in piccoli spacci; ma è anche un segugio dal fiuto infallibile in grado di penetrare i più oscuri recessi della natura umana.
La scomparsa di un giovane studente senza tanti grilli per la testa lo mette sulle tracce di un suo professore che sembra avere troppi scheletri nell'armadio.
Missing Dany, losing Dennis
Come da sinossi e conformemente al soggetto letterario cui si ispira (Un caso di scomparsa di Dror Mishani) questo terzo lungometraggio dell'autore francese di origini italiane Erik Zonca, ricapitola un po' meccanicamente tutti gli stereotipi del tardo noir degli anni 2000, forse più ispirato alle atmosfere umbratili del thriller poliziesco di casa nel sud degli States che dalla lunga tradizione del polar francofono, più attento alla geometrica precisione della trama ed all'inesorabile fatalismo che accompagna i suoi sordidi protagonisti. L'antieroe di turno è qui rappresentato da un irriconoscibile Vincet Cassel che smessi i panni dell'aitante tombeur de femmes, ne conserva però funzioni e prerogative, quale squallido frequentatore di un sottobosco di perversioni domestiche che principiano dalla sua disastrata condizione familiare di marito abbandonato e padre snaturato e trovano nuove e più sordide varianti in casa della vittima designata od in quella di un eccessivamente solerte e petulante condomino. Presto abbandonata la vena autoriale da cinema sociale del suo folgorante esordio con La vita sognata degli angeli (1998), sul disagio giovanile e lo smarrimento generazionale degli anni '90, Zonca ricompare a scadenza decennale con due analisi romanzate sul disagio etilico che sembra aver segnato la sua esperienza personale: Julia del 2008 e questo Fleuve noir del 2018, tentando la carta di un cinema di genere che conserva uno sguardo caustico sulla deriva etica di una società in cui il concetto stesso di famiglia sembra aver abdicato definitivamente al proprio ruolo pedagogico e affettivo, per trasformarsi in una trappola mortale fatta di genitori degeneri, segreti coniugali inconfessabili e figli vittime-sacrificali. Fondato su di un meccanismo di genere che gioca un po' troppo a carte scoperte e con più di un passaggio a vuoto sul versante della logica narrativa (l'epilogo-confessione ricattotorio di una madre snaturata chiude emblematiamente questa deriva, lasciando in sospeso giudizi e consenguenze), il film soffre di un evidente raccordo nell'alternarsi delle sue dinamiche, tentando goffamente di intorbidare le acque e concludendo con un finale tutt'altro che a sorpresa che sembra scimmiottare l'escamotage del paradosso di informazione di un capolavoro dell'ambiguità e del depistaggio (meta)cinematografico come il Caché di Michael Haneke. Resta, pur nel fastidioso overacting che la parte richiede e nelle numerose scene al limite del grottesco (l'investigatore che si fa offrire da bere dalle testimoni che visita in casa e lo stupro 'consenziente' che opera in danno di una di queste), la figura di un investigatore trasandato e cialtrone che sembra conoscere perfettamente sospettati e rei, cui assomiglia fin troppo, ed aggiornando la lunga galleria di detective borderline che vanno dal sornione e disilluso Philip Marlowe di Elliott Gould al mefistofelico Harry Angel di Michey Rourke, non lasciando però alcun segno tangibile di un passaggio (sul grande schermo) decisamente a vuoto.
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