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Borg McEnroe

Regia di Janus Metz Pedersen vedi scheda film

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La recensione su Borg McEnroe

di supadany
6 stelle

“Borg McEnroe” propone una sfida sportiva che si scioglie in un discorso più ampio, coinvolgendo in un attimo anche chi con il tennis non ha il benché minimo rapporto. Storicamente, il tennis con il cinema quaglia poco e anche questa volta il matrimonio presenta diversi limiti. Aspettiamo il momento dell’ultradecennale sfida tra Federer e Nadal.

Non si può vincere per sempre, prima o dopo è inevitabile confrontarsi con la sconfitta. È una legge della natura. Può succedere quando sei vicino a un traguardo importante, oppure quando hai già scritto una pagina di storia – personale, sportiva, politica, civile – che nessuno ti può togliere (il record sì, il successo che fu, no), ma scendere dall’ottovolante è sempre un’impresa che sgretola anche la scorza umana più forte, così come salirci per la prima volta regala un misto di gioia e responsabilità.

Borg McEnroe ripropone una pagina di leggenda sportiva, precisamente tennistica, uno sport da sempre poco fortunato al cinema, non tanto un conflitto tra due mostri sacri, quanto il confronto di ognuno di loro con se stesso, con i demoni che attanagliano l’anima e limiti che sembrano invalicabili, in una disciplina che sul campo non concede sponde con l’esterno e che fuori dallo stesso catapulta in una pentola a pressione, fatta di aspettative proporzionali ai successi.

Più che l’esibizione formato evento, sono gli uomini a contare e bilanciare le forze in atto – con gli obiettivi, il macigno del successo, i rapporti extra campo, il match che tiene con il fiato sospeso milioni di persone e il passato formativo – dando a ognuna il suo sfogo, rimane una chimera, che probabilmente il regista Janus Metz e lo sceneggiatore Ronnie Sandahl nemmeno contemplano nella lista delle priorità.

Wimbledon, 1980. Björn Borg (Sverrir Gudnarson) si presenta ai nastri di partenza come favorito d’obbligo, pronto a vincere il quinto titolo consecutivo sull’erba inglese ed entrare così nella storia. Il suo principale avversario è il giovane John McEnroe (Shia LaBeouf), odiato dal pubblico inglese per il suo comportamento completamente estraneo alle regole.

Sul campo, i due sono come il sole e la luna, qualsiasi dettaglio li rende opposti e mentre il tabellone semina speditamente gli altri avversari per strada, con la finale tra i due che si avvicina, entrambi vivono un momento delicato, riflesso nelle esperienze che hanno contribuito alla loro formazione, non solo sul campo di gioco.

 

Shia LaBeouf, Sverrir Gudnason

Borg McEnroe (2017): Shia LaBeouf, Sverrir Gudnason

 

Borg McEnroe è una pellicola che annuncia – rimanendo spesso nei pressi della superficie - vari stati della condizione umana e si (sovrac)carica di contraddizioni, con una serie di dicotomie che fuoriescono dall’immagine dei due campioni presi in esame - Björn Borg e John McEnroe -, tra un autocontrollo totale e un’esuberanza che non può essere contenuta, la solidità contro l’imprevedibilità, la continuità che sfida l’estro di un talento (artistico) smisurato, con l’immagine pubblica che fa a pugni con ciò che questi due fuoriclasse sentono scaturire dalle viscere. Un gentiluomo amato da tutti che sfida un villain (sportivo).

Tra il passato, con la formazione di uomo e atleta, e il presente, la sfida delle sfide dell’estate 1980, due mondi distanti – ieri assai più di oggi – come gli Stati Uniti e la Svezia, tutto riassunto scorrendo il libro dei ricordi personali e quelli condivisi, spaziando senza sosta, con un equilibrio maggiormente orientato verso il campionissimo svedese, come poi i nomi coinvolti, principalmente nordici, lasciano trapelare senza esitazione.

In quella che assume la forma di una carrellata, tanta acqua scorre sotto i ponti, il fraseggio presenta rallentamenti e la coesione rischia più volte di franare, con il componimento che diventa una sorta di pamphlet delle singole vite in gioco.

L’estensione privata diventa un limite naturale, apre uno sguardo umano senza avere il tempo di carburare a pieno regime, mentre il campo spende le note pubblicamente note. I due frangenti instaurano un discreto feeling emotivo, ma è impossibile replicare quell’epica sportiva e anche nella riproposizione formale della fatidica partita, il miracolo non si compie, rimanendo meno efficace anche della rappresentazione di campo offerta dal contemporaneo La battaglia dei sessi, invero un titolo che in tal frangente si giova di un clima completamente diverso, grazie a una memoria meno impattante.

Un valore aggiunto arriva invece dai protagonisti, anch’essi perfetti in due modi tra loro distinti: mentre Sverrir Gudnarson è una fedele copia fisica di Björn Borg, il bizzoso Shia LaBeouf è perfetto per replicare il carattere fuori controllo di John McEnroe.

Così, come spesso capita quando vengono replicati eventi e uomini di comune dominio, è proprio sul finale, quando cala il sipario, che l’empatia dilaga senza conoscere freni, tra un abbraccio che anticipa un rapporto destinato a divenire duraturo e immagini di repertorio che fermano per un paio di minuti il tempo, riconducendo a una dimensione dove era tutto diverso.

 

Sverrir Gudnason, Shia LaBeouf

Borg McEnroe (2017): Sverrir Gudnason, Shia LaBeouf

 

Onestamente, si trattava di compiere un’impresa non troppo dissimile dal vincere cinque Wimbledon di fila e Borg McEnroe disperde energie senza sfruttare appieno i dividendi del suo operato, ma l’interpolazione tra un’immagine pubblica frenetica, con una fama planetaria e pressioni smisurate, e un privato che mostra debolezze assai comuni e quella spasmodica - quanto semplice - ricerca della felicità che accomuna chiunque, costituisce un recinto dentro cui perdersi è un gioco da ragazzi.

Pianificato su un accumulo di direzioni difficili da sviscerare, poroso per come si offre al pubblico e vagamente lascivo nel suo sintetizzare un materiale che - vista la prima stagione - sarebbe stato perfetto per un’annata di Feud.

Aspettando il turno di un Roger (Federer) Rafael (Nadal) cinematografico: ogni generazione ha i suoi miti e i confini – tra arte e record – si spostano sempre un gradino più in là.          

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